Per uno di quei misteri della Rete che io non sono in grado di spiegare, un vecchissimo articolo di Hic Rhodus è stato commentato ieri, in modo tale che mi suggerisce una risposta pubblica.
L’articolo in questione riguarda la valutazione delle politiche pubbliche, ed era stato scritto volutamente in maniera introduttiva, per presentare la questione ai lettori: cos’è la valutazione delle politiche pubbliche, perché in una democrazia moderna sia necessaria e la situazione (scadente, ovviamente) in Italia. All’inizio della nostra avventura come blogger ci capitava (specialmente a me, devo dire) di scrivere cose così, un po’ didascaliche, perché immaginavo (non a torto) che mi sarebbero servite come basi per articoli successivi. Poi, in realtà, abbiamo spesse volte fatto riferimenti alla valutazione, in diversi articoli, ma approfondimenti specifici non ne abbiamo più proposti. Chi fosse interessato può trovare riferimenti un pochino dedicati qui:
- Responsabilità nei gruppi di lavoro: ricerca sociale e valutazione delle politiche pubbliche;
- ACB contro ABC. Altrimenti detto: le analisi tecniche al servizio del Principe;
- Quanto costa la cooperazione allo sviluppo? E cosa riesce a fare, a fronte di quei costi?
Chi ci legge con una certa frequenza, comunque, sa bene che per noi la buona politica è una politica razionale, e ciò significa che sa valutare (ex ante, in itinere ed ex post) le azioni che intraprende. In epoca di esplosione della complessità sociale nessuno, assolutamente nessuno, è in grado di governare un Paese senza dati, informazioni, articolate serie di pareri, strumenti tecnici, e sempre con margini di incertezza crescenti che possono limitare i danni (o massimizzare i benefici) solo con una continua e attenta osservazione, ciò che si chiama, appunto, “valutazione delle politiche pubbliche”.
Ebbene, a distanza di quasi sette anni un commentatore anonimo ci scrive quanto segue:
In democrazia la valutazione delle scelte politiche spetta in ultima analisi agli elettori, non certo ai comitati tecnici (tecnici “indipendenti”? La “indipendenza” è “imparzialità” al 100% di fatto è un miraggio, nemmeno in ambito giuridico esiste, infatti esistono tre gradi di giudizio). Sono gli elettori a subire gli effetti delle scelte politiche, ergo non esiste nessuno che abbia più titolo di loro a giudicare e valutare. Se invece si ha la convinzione che gli elettori siano una massa di minorati incapaci di capire i propri interessi tanto da lasciar valutare dei tecnici, allora non ha senso parlare di “democrazia”. Magari ci si riferisce alla “aristocrazia” (che poi quasi sempre si trasforma in oligarchia).
(Il commento, ovviamente da noi pubblicato, lo trovate in calce all’articolo).
Questo lettore ovviamente è capitato per caso in questo articolo e non si è peritato di scriverci un commento che in maniera cristallina rappresenta ciò contro cui questo blog si batte da anni: il populismo nella sua forma grezza, pura, autentica, tanto limpido che, onestamente, pensavo fosse da tempo tramontato (a favore di un populismo più cinico e paraculo, come quello del M5S di governo per intenderci). Ho deciso di rispondere a questo lettore e di farlo in maniera estesa, con questo post, a beneficio di tutti i lettori.
Pars destruens:
Il popolo non è in grado di comprendere e giudicare le politiche pubbliche per queste sommarie ragioni:
- L’asimmetria informativa fra beneficiari di servizi (il “popolo”), i fornitori (enti pubblici, agenzie governative…) e i decisori (per brevità: il governo). Mentre quest’ultimo – nell’ipotesi che lavori bene – si può avvalere di stuoli di competenze, relazioni, dati, e i fornitori conoscono comunque budget disponibili, organizzazione del lavoro etc., i beneficiari hanno contezza solo ed esclusivamente, dei loro bisogni immediati. Solo una minima parte di beneficiari, particolarmente colta e istruita, può conoscere alcuni elementi (non tutti) del servizio che riceve. Noi possiamo lamentarci della sanità, per esempio, ma non sappiamo nulla del complesso mondo sanitario, fatto di competenze professionali, budget, obiettivi di salute, organizzazione del lavoro, pressioni politiche, informazione scientifica in continua evoluzione eccetera; solo la minoranza di beneficiari che è, contemporaneamente, occupata in sanità, può averne più o meno contezza. Altro esempio, ormai classico: la Brexit, dove la stragrande maggioranza del brexiteer non conosceva neppure l’ABC del funzionamento dell’Unione, e aveva idee palesemente errate sul rapporto fra UK e Unione.
- L’estrema facilità con la quale viene ingannato il popolo. L’esempio della Brexit è ormai un caso di scuola in questo senso. Ormai le informazioni sbagliate sono diffuse a bella posta, da centrali eversive, per confondere la gente in prossimità, per esempio, di appuntamenti elettorali (elezioni americane, per esempio).
- La volatile umoralità del popolo. Il popolo, come massa, sulle autostrade comunicative di Facebook e Twitter, guarda il mondo, e lo giudica, su base umorale, contingente, irriflessiva, anche sulla scorta delle falsità di cui al punto precedente. Esempio: il referendum costituzionale del 2016, dove “il popolo” punì Renzi e la sua burbanza e la sua antipatia, con una vaghissima cognizione sul fatto che si interveniva sul Senato e poco più; non ci fu alcun dibattito – se non di nicchia, come quello ospitato qui su Hic Rhodus – sui risvolti tecnici dell’articolata proposta referendaria, per esempio sulla iattura di quel Titolo V della Costituzione che il referendum voleva sanare ma che pochissimi elettori conoscevano. Altro esempio: l’abbattimento delle statue di personaggi del passato giudicati cattivo esempio per la contemporaneità.
- Le competenze! Per decidere occorrono competenze! Non si tratta di micro-decisioni familiari (la pizza la vuoi alla salsiccia o ai quattro formaggi?) ma di macro-decisioni su questioni di enorme complessità, che costeranno quantità di soldi, si svilupperanno su un numero di anni considerevole, avranno ricadute sulle vite di milioni di persone! Volete voi, popolo italiano, le centrali nucleari (abbiamo fatto due referendum su questo)? Ma chi – fra il popolo italiano – capisce di energia in generale (produzione, approvvigionamento, distribuzione e consumi), di nucleare in particolare, sua sicurezza, gestione delle scorie… E voi politici chiedete a noi popolo di decidere se il nucleare ci piace oppure no? Dopodiché cos’è successo, nella realtà italiana? Che il primo referendum si è tenuto pochi mesi dopo il disastro di Chernoby, e il secondo dopo quello di Fukushima e il popolo, spaventato, ha ovviamente votato “No”. Un voto umorale, non un voto tecnico.
Pars construens:
La complessità sociale rende ingovernabile il mondo col puro buon senso, o con una raffinata argomentazione filosofica. Occorrono informazioni, dati, e occorre un monitoraggio costante del mutare delle circostanze.
- Il problema, in sostanza, si riduce alla crescente ed enorme e ingovernabile complessità sociale; la valutazione delle politiche pubbliche nasce proprio per aiutare i decisori a navigare su tale complessità, a cogliere per tempo elementi di forza e debolezza delle politiche, imparare dagli errori in maniera non rapsodica.
- La valutazione delle politiche pubbliche, proprio per la sua terzietà, per l’uso di strumenti chiari e pubblici, è un elemento di democrazia: cerca il meglio, analizza le migliori possibilità a beneficio di una collettività. Inutile proporre lo sciocchezzario del “chi valuta i valutatori?”, come si fa a “garantire” l’oggettività? e altre analoghe questioni assolutamente ridicole; chi le propone è talmente distante da una visione chiara del funzionamento dei processi decisionali e degli apporti tecnici possibili da parte di chi ha strumenti di conoscenza, che è assolutamente inutile affrontare ogni discussione. Valga solo questo spunto: se i “normali” processi decisionali sono già inquinati da scarsa informazione, improvvisazione, assenza di competenze, mancanza di dati (guardate il caso dei dati Covid), compromessi di bassa politica eccetera, perché mai criticare l’apporto di economisti, sociologi, ingegneri etc., che possono mettere in campo dati e saperi specifici? Il punto vero è che la valutazione deve essere trasparente, e messa a disposizione della critica di chiunque; ma la valutazione è già così, e semplicemente – se così non fosse – non è valutazione.
- La valutazione delle politiche pubbliche è scienza sociale applicata. L’accento, qui, va su “scienza”. Ci sono enormi biblioteche di testi teorici e pratici sull’economia, la sociologia e ogni altra disciplina implicabile. C’è tradizione scientifica, ci sono innumerevoli casi di studio, ci sono legioni di specialisti. Ciò non rende la valutazione “vera” o “oggettiva”, ma la rende argomentabile e trasparente; il valutatore studia – in scienza e coscienza – il problema che gli viene posto; cerca e ripropone dati; chiede pareri; sviluppa inferenze; fa analisi. Poi mette tutto sul tavolo lasciando al decisore il compito di prendere la sua decisione. Il valutatore, ovviamente, sbaglia come ogni essere umano, ma mostra il suo percorso argomentativo e aiuta ad apprendere (organizzativamente, amministrativamente, politicamente) dai suoi argomenti. Una cosa che è il contrario della politica, e assolutamente il contrario della “decisione” presa a furor di popolo.
Mi pare una differenza abissale con le decisioni prese a naso dai politici di questi ultimi anni, che hanno proposto politiche demenziali, costose, inefficaci che nessuno ha la capacità di abolire semplicemente per motivi demagogici (vedi reddito di cittadinanza) o perché non si saprebbe cosa mettere al loro posto (vedi norme sull’immigrazione).
Quindi: lasciamo perdere le etichette (‘aristocrazia’, ‘oligarchia’…) che non spiegano nulla e riflettono solo l’ideologia di chi le propone per marcare delle distanze demagogiche.
Se in Italia si valutassero le politiche del lavoro, sul reddito, le politiche industriali, le politiche sanitarie, quelle del territorio, se si valutassero davvero (e non in maniera rituale o meramente burocratica, come d’uso in Italia), avremmo più servizi pubblici efficaci, più cittadini soddisfatti, un tessuto industriale più competitivo e più occupazione, meno disuguaglianze, meno debito pubblico.