La tragicomica vicenda dell’occupazione del palazzo del Congresso USA da parte di un’Armata Brancaleone di facinorosi, grottesca e sinistra al tempo stesso, ha avuto, e avrà, considerevoli conseguenze. Tra queste, vorrei sottolineare quelle relative alle piattaforme digitali in generale e ai Social in particolare, perché sono un eloquente esempio di quello che qui su Hic Rhodus diciamo da anni sulla cittadinanza digitale. Ma andiamo con ordine.
Uno degli effetti immediati dell’intollerabile comportamento di Donald Trump (intollerabile, intendiamoci, non da oggi) è che Facebook, Instagram e Twitter hanno bloccato i suoi account a tempo indeterminato. Di fronte a queste e altre misure prese dalle principali Social Media Platform contro Trump e contro altri utenti che hanno aizzato e sostenuto le azioni eversive dei partigiani del presidente uscente (trovate un elenco qui), molti di questi ultimi avevano spostato le loro “discussioni” su altre piattaforme, come Parler, un Social alternativo che vanta circa 4 milioni di utenti attivi, con una “popolazione” prevalentemente simpatizzante della destra USA. Tuttavia, dopo che su Parler si sono visti circolare post palesemente contrari alla legge, Apple e Google hanno deciso di eliminare le app di Parler dai loro store, almeno fino a quando quel Social non si dimostrerà in grado di bloccare i contenuti contrari ai termini contrattuali imposti appunto da Apple e Google a tutte le app diffuse sulle loro piattaforme.
Naturalmente, non manca chi grida alla censura, alla sospensione della democrazia, alla soppressione delle voci dissenzienti, alla violazione delle libertà costituzionali, eccetera. Non solo Trump (ovviamente), ma anche diversi altri osservatori, inclusi alcuni di casa nostra. Ora, partiamo da un fatto chiaro: Facebook, Twitter, e tutti gli altri non hanno nessun obbligo legale di lasciare Trump libero di pubblicare quello che gli pare. Come unanimemente hanno chiarito i vari esperti legali consultati in questi giorni dai media, le aziende proprietarie delle piattaforme digitali (che siano piattaforme operative come quelle di Apple e Google, o piattaforme applicative come quelle di Facebook e Twitter) sono dei privati, che concedono l’uso delle proprie tecnologie a fronte di un contratto e di specifiche condizioni d’uso, e se un utente le viola può essere cancellato. A questo non si applica nessuna norma costituzionale, né USA né italiana. Fine della storia?
Sì e no. Perché se legalmente le cose stanno così, da un punto di vista sostanziale è innegabile che un problema esista, molto più ampio dell’uso becero e criminale che Trump da anni fa dei Social Media. Il problema è che ormai, accanto alla cittadinanza legale, ognuno di noi ha una cittadinanza digitale all’interno della Rete, e che questa cittadinanza digitale è inadeguatamente concepita, realizzata e regolamentata. Nessuno, oggi, può essere pienamente cittadino senza disporre di diritti di cittadinanza digitale: anche gli Stati stanno, comprensibilmente e giustamente, trasferendo online molti dei servizi per i cittadini, e parte di questi servizi utilizzano anche i Social. Eppure, la definizione dei diritti e dei doveri dei cittadini digitali è largamente lasciata alle aziende private che forniscono l’accesso alle piattaforme digitali stesse, e questa, intendiamoci, non è una colpa delle aziende ma dei governi. Non a caso, il nostro primo articolo su questo argomento, Cittadini di Internet: cosa vuol dire? risale al 2014, e naturalmente da allora la questione è diventata più rilevante, mentre i soggetti pubblici hanno fatto poco o nulla.
Un’ulteriore complicazione del nostro status non riconosciuto di “cittadini digitali” è che in generale di tutto ciò che utilizziamo per la nostra presenza online noi disponiamo di diritti d’uso e non di possesso. Si è pienamente realizzato lo scenario delineato ad esempio nel 2000 da Jeremy Rifkin nel suo libro L’era dell’accesso: tutti noi utilizziamo, per “esistere digitalmente”, strumenti di cui non siamo proprietari, ma semplici utenti. Anche quando paghiamo un canone mensile, non siamo proprietari di nulla: non siamo proprietari del sistema operativo del nostro cellulare, che spesso è a sua volta in leasing, non siamo proprietari delle nostre caselle di posta elettronica, non siamo proprietari dei nostri account Social, non siamo proprietari delle app che usiamo sugli smartphone, non siamo proprietari degli eBook che leggiamo, eccetera. I nostri diritti civili digitali sono, per così dire, in leasing, e ci possono essere sottratti in qualsiasi momento, perché violiamo qualche norma dei contratti che stipuliamo (e non leggiamo) per averli, o magari semplicemente perché l’azienda che ci offriva quei servizi smette di farlo.
Come si esce da questa situazione? Ovviamente non è semplice. La mia opinione è che sia necessario arrivare a una formalizzazione del concetto di Digital Citizenship, più o meno nei termini esposti nel nostro articolo del 2019 Digital Citizenship: una rivoluzione possibile, che mi sentirei sostanzialmente di confermare oggi. A fronte di obblighi più stringenti (la certezza dell’identità, la responsabilità piena di ciò che si fa e si scrive online) i cittadini digitali dovrebbero disporre di diritti e servizi, e un livello minimo di servizi di cittadinanza (potremmo dire inalienabili) che siano garantiti anche in caso di violazioni della “legge”. In un simile scenario, Trump sarebbe certamente stato zittito (e, ripeto, non da oggi), ma a fronte di un procedimento trasparente e di regole uguali e condivise su tutte le piattaforme aderenti a questa federazione digitale.
Ma una simile trasformazione non avviene da sola: dobbiamo essere anche noi cittadini (e utenti aspiranti a diventare cittadini) a richiederla e a esercitare una pressione intelligente sui service provider e sulle istituzioni tradizionali. Altrimenti, resteremo titolari solo di diritti in leasing.