Senza tribù

Pierluigi Battista già mi aveva ispirato l’altro ieri, a proposito della fine della civiltà della discussione, e ha continuato a trattare l’argomento in due successive puntate, quella di ieri dedicata alla fine dell’ironia, che lui giustamente collega al declinare dello spirito critico (ne avevo trattato anch’io la bellezza di sei anni fa), e quella di oggi che tratta della parcellizzazione delle credenze, dopo la fine delle grandi ideologie del Novecento (altro tema molto trattato su Hic Rhodus) e il feroce senso di appartenenza che si pone come prius argomentativo: 

Se non sei ebreo perché dovresti sostenere il diritto dello Stato ebraico di esistere e di difendersi da chi lo vuole annientare? Non conta quello che dici, ma quello che sei, a cosa si appartiene, di quale tribù sei parte. Sei bianco e maschio? Allora non puoi tradurre le poesie di Amanda Gorman. J.K. Rowling difende l’identità biologica delle donne? Non è trans, e dunque è transfobica. Sei eterosessuale? Allora non puoi sollevare dubbi sul ddl Zan, chissà quali cattive intenzioni ti animano. La fine della civiltà della discussione è anche nel fitto reticolo di interdizioni che rende sospetta la semplice espressione di un giudizio disinteressato. Di questo passo sarà impossibile avere un’opinione sulla giusta età pensionabile se non sei anziano, o sul reddito di cittadinanza se la tua dichiarazione dei redditi ti tiene fuori da una condizione di povertà.

Condivido ogni parola. Le radici di questo senso tribale di appartenenza conduce alla cancel culture (noi siamo quelli di oggi, cancelliamo quelli di ieri senza il beneficio di una contestualizzazione e comprensione storica), al peggiore femminismo (donne “contro” i maschi, autocentrate sul proprio genere, incapaci di costruire un “noi” più ampio e includente, sempre entro la tensione politica di un riequilibrio di potere fra i generi), all’antiscientismo (sappiamo noi, e solo noi del nostro gruppo, della nostra setta, la vera verità, contro tutti e contro le loro pretese argomentazioni, e dati, ed evidenze, tutte chiaramente false e atte a ingannarci), e ovviamente, alle appartenenze politiche, di ciò che oggi si chiama ‘politica’ senza che le assomigli. Provate oggi, da riformisti, da democratici, a fare una critica a Letta e al PD; sarete mangiati vivi, insultati, considerati dei fasci di merda (mi è successo di recente). Ma perché mai io, democratico e riformista (intendete queste etichette in senso lato, non stringente) dovrei andare a criticare il “pensiero” di Giorgia Meloni, della quale non mi importa un fico secco? È ovvio che critico esattamente e proprio quelli che mi sono potenzialmente più vicini, ovvero i leader e le formazioni liberali, socialdemocratiche e riformiste. 

Dalla tribù si esce per scelta inconsapevole. Ti accorgi di non potere fare a meno di sottolineare un errore, una fallacia, un’incongruenza… “Vedi” (o credi di vedere, il che è lo stesso) che certe cose non vanno bene e lo dici. Anche quest’ansia del dire – o dello scrivere – non è affatto una “scelta”, che può attaccarsi sul petto la medaglia di nobile e coraggiosa; è una debolezza, un retaggio adolescenziale, un difetto nel carattere che è causa di mille flagelli personali. Quindi, sia chiaro, non c’è merito nello stare continuamente col ditino puntato verso quella castroneria, quella malefatta, quella stupidata. E presto la gente si stufa di essere redarguita e corretta e ti manda a cagare. Io, per esempio, sto sempre al bagno…

Quando, su questo blog, me la sono spesso presa con quella che chiamo “omologazione” di massa, non l’ho intesa come un unico, identico pensiero che pervade la grande maggioranza della popolazione (tutti che pensano che il verde sia migliore del viola). Una delle grandi trappole della modernità complessa è l’apparente libertà di scegliere, ciascuno, le sue sfumature di colore, ma l’omologazione si è trasferita dal risultato della scelta al metodo tramite il quale scegliere: quello della tribù. Può essere una tribù con milioni di seguaci (per esempio un partito) o una tribù con poche centinaia di membri (sette complottiste) e – altra conseguenza della complessità – ciascuno appartiene contemporaneamente a molteplici tribù, creando l’illusione della varietà e della libertà.

Ma non è così: si sta, dentro ciascuna tribù, allo stesso modo: delegando le scelte e rinunciando al pensiero critico; guardando il mondo selettivamente e solo nelle parti che confermano il pensiero dominante della tribù; non si legge, non si argomenta, non si comprende, specialmente non si include: si giudica solo in base all’adesione ai principi della tribù: sei dei nostri vs. sei un nemico, uno stupido, un colluso, fascistamaschilistaomofoborazzistasionistacattivapersona.

Ebbene sì, lo sono.