Dio c’è?

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Quelli a cui Dio ha parlato sono quelli che dovevano averne più bisogno (Cormac McCarthy, Non è un paese per vecchi)

La provocazione di Veronesi sull’inesistenza di Dio e il dibattito che ne è seguito non sono novità; periodicamente qualche “grande vecchio” si interroga sul Grande Mistero (qualche mese fa fu Scalfari), è normale che sia così, può essere interessante richiamare le coscienze e le intelligenze a confrontarsi col G.M. ma, onestamente, c’è un elemento che continua a rendermi profondamente perplesso: l’improprio accento di “verità” che le parti coinvolte mettono in campo nel sostenere entrambe le tesi. Veronesi per esempio, racconta, si allontana da Dio di fronte al Male (devo scrivere anche questo con la maiuscola) di Auschwitz e poi, definitivamente, di fronte al cancro, che non riesce a collegare alla volontà di Dio. Il cancro debellabile solo con la capacità del chirurgo, con la scienza della medicina. Veronesi, da quel che capisco, fa quindi un’equazione di questo genere: il Male è incompatibile con Dio e le sue conseguenze sono debellabili solo con uno sforzo intellettuale (la scienza…) quindi Dio non esiste. È quel “quindi” che resta privo di qualunque spessore filosofico ed epistemologico e tradisce un pensiero semplificativo e ingenuo.

Altrettanta ingenua la risposta del fisico cattolico Antonino Zichichi; Zichichi critica – giustamente – l’immanenza del ragionamento di Veronesi, tracciandone una distinzione con la trascendenza della fede, ma poi conclude con un’altra equazione ingenua e di natura immanente esattamente speculare a quella di Veronesi: se l’Universo esiste ne deve esistere un Autore, cioè Dio. Questa equazione è ingenua per diversi motivi:

  1. la scienza è in grado di spiegare – o è in procinto di farlo – tutti gli elementi che hanno giustificato per secoli, per ignoranza, il ricorso a spiegazioni extra naturali (la materia e la sua formazione, per esempio); non serve Dio per giustificare razionalmente l’universo anche se – sia ben chiaro – ciò non è neppure una ragione sufficiente per negarlo;
  2. la necessità di spiegare un Ente (p.es. l’universo e il suo senso) con un Ente terzo (per esempio Dio in quanto Autore) è fallace sotto il profilo logico; se ne accorse in parte Guglielmo di Occam col suo rasoio generando poi un criterio argomentativo variamente utilizzato e interpretato nella filosofia dal Medioevo all’Illuminismo;
  3. ma soprattutto è ingenuo il ricorso all’immanenza (se l’Universo esiste deve esserci un Autore che chiamo Dio) per spiegare la trascendenza (un Dio accettato per fede, cui pure si rifà Zichichi); ciò non è possibile: l’immanenza è il regno della ragione e la ragione non può spiegare Dio.

Quest’ultima affermazione (“la ragione non può spiegare Dio”) è la chiave del mio discorso. Nei secoli sono state prodotte molteplici “prove” dell’esistenza di Dio volte a combattere lo scetticismo razionalista (nelle Risorse finali vi cito alcune fonti) che possiamo dividere in diversi gruppi: le prove ontologiche hanno a che fare con l’esistenza necessaria di un Ente che può essere pensato (l’idea di perfezione di Dio che abbiamo in mente non può che rinviare alla realtà di un siffatto Dio); quelle metafisiche scavano alla ricerca di una causa ultima (poiché ogni cosa – o effetto – è generata da un’altra cosa – o causa – per non regredire all’infinito occorre immaginare una causa ultima che chiamiamo Dio); quelle teleologiche assumono che l’ordine dell’Universo non può non celare una volontà (quella di Dio; questo è fra l’altro l’argomentazione di Zichichi); e così via, potete approfondire da voi. In ogni caso, e questo è ciò che unifica tutte le (presunte) prove dei teologi e dei filosofi nei secoli, si tratta sempre e comunque di costrutti argomentativi; sia che tentino una strada logica, sia che affondino le radici su un a priori, queste “prove” sono, tutte e nessuna esclusa, artifici argomentativi e quindi fondamentalmente immanenti. Si vuole cioè spiegare Dio con l’esperienza, col linguaggio, con categorie, con formule retoriche, con sillogismi che appartengono all’esperienza umana, alle sue condizioni intellettuali, alla sua capacità espositiva. Spiegare Dio con le parole degli uomini è un controsenso; se Dio può essere spiegato si sottopone a un processo di analisi razionale e perde la sua divinità e, assieme, la sua necessità. Questo principio vale per gli atei ingenui (che credono di spiegare l’inesistenza di Dio col male, come Veronesi) come per i credenti (che credono di spiegare Dio con l’esistenza dell’Universo, come Zichichi).

Se non si può usare la ragione per dimostrare l’esistenza di Dio (o la sua inesistenza), mantenendo la distinzione fra immanenza e trascendenza, ciò che resta è la separazione dell’esperienza del credente rispetto al non credente. Il credente crede per fede; che è un percorso interiore e personale che non si può narrare (a scapito di banalizzarlo nel linguaggio ordinario) ma solo sperimentare. Il non credente non ha fede, non può essere capito dal credente e non può a sua volta capirlo. Da ateo ho provato alcune volte a chiedere, a credenti colti e teologicamente profondi, “Spiegami cosa vedi tu, che io non riesco a vedere, che motiva la tua fede”; ne ho ricevuto discorsi complessi e a volte eruditi ma essenzialmente vuoti. Qui non posso che citare Wittgenstein che nel Tractatus conclude con la celebre sentenza

Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere.

Che non significa “ciò che si ignora”, come taluni intendono; ciò “di cui non si può parlare” è, secondo il grande logico austriaco, ciò che non appartiene al dominio del linguaggio e della logica razionale come, appunto, la trascendenza (un approfondimento interessante lo trovate QUI).

Eliminata la possibilità di argomentare l’esistenza o inesistenza di Dio può restare, per qualcuno, la necessità di un fondamento dell’etica. Il cristiano risolve il problema rinviando all’insegnamento di Gesù Cristo e al suo sacrificio e, analogamente, la maggior parte delle religioni rinvia ai precetti morali dettati dalla propria divinità. Il laico deve costruire invece un’etica terrena, fondata su un umanesimo immanente disponibile al mutamento e all’adattamento, capace di confrontarsi coi rischi e i fallimenti. Senza ricompense che non siano quelle intrinseche dell’utilità del bene (come ho già scritto qui su HR); fare “bene” è più conveniente, per la collettività e sul lungo periodo, rispetto a fare il male, e questo è facilmente argomentabile e in qualche modo dimostrabile. Ciò non impedisce il male. Lo sviluppo dell’umanità è sviluppo culturale ed etico: dalla legge della jungla alla convivenza metropolitana contemporanea il passo è enorme ma ciò non impedisce il male che sempre è in noi. Come scrive il premio Nobel William Golding

l’uomo fa il male come le api il miele.

La Shoa di cui parla Veronesi, o l’ISIS tagliatrice di teste, o gli stupri, gli imbrogli, le violenze domestiche e ogni altra cattiveria che possiamo sperimentare o testimoniare sono semplicemente una parte della nostra natura interiore, come il cancro o i terremoti sono manifestazioni della natura esterna. Non deve esserci una ragione o una logica tranne quella della costante marcia dell’umanità per andare oltre, per addomesticare la belva dentro di noi e governare quella fuori di noi.

Il male non nega l’esistenza di Dio, come il bene non può dimostrarla. Chi ha Fede ritiene che il bene sia una necessità conseguente al volere e all’insegnamento di Dio mentre chi tale fede non ha ritiene che il bene sia un tentativo, qualcosa di socialmente negoziabile, un’opportunità. Un ponte fra queste due interpretazioni del mondo è possibile e l’ho recentemente trovato in un breve post di don Aldo Antonelli, coordinatore di Libera e acceso protagonista di molte battaglie. Dice Antonelli:

Il “Dio” di Gesù Cristo non è il Dio delle risposte alle domande dell’uomo, ma il “Dio” delle domande che interpella la coscienza dell’uomo e la sua responsabilità. È il Dio che chiede ad Adamo: “Dove sei?”, “Cosa hai fatto?”; ed è il Dio che chiede a Caino: “Dov’è tuo fratello?”. Il cristiano, non conosce una strada che aggiri il dolore: conosce piuttosto una strada, insieme con Dio, che lo attraversa (Cfr. Ernst Schuchardt). “Il cristianesimo non è un metodo per evitare il dolore, ma per attraversarlo e assumerlo”, secondo le parole di Arturo Paoli (Le Beatitudini).

Ecco allora che sulle responsabilità da assumersi in quanto persone c’è un ampio terreno d’intesa. Una responsabilità umana e immanente che per il cristiano prende a modello e insegnamento Gesù Cristo e per il non cristiano altri riferimenti, indubbiamente meno irraggiungibili, ma sempre volti alla responsabilità, e quindi al disegno di una socialità praticabile, di un umanesimo delle possibilità.

Voglio aggiungere una postilla non centrale rispetto a quanto appena scritto ma utile per fare chiarezza rispetto all’ateismo ingenuo di cui ho accennato all’inizio, che diventa la tipica caricatura che dell’ateo si fornisce in ambienti teistici. L’ateo che dice “credo che dio non esista” è ingenuo e grossolano e incappa pienamente in quell’impossibilità del dire trattata sopra; sarebbe lo stesso errore del teista ingenuo che asserisce “credo che Dio esista”, se non fosse che il riferimento di questo secondo è una trascendenza di per sé non altrimenti argomentabile, scappatoia che l’ateo non ha. A chi dice “credo che dio non esista” si può chiedere l’onere della prova… Assai diverso è dire “non credo che dio esista”; in questo secondo caso si intende: non affermo dogmaticamente che non esista, perché non posso dire nulla di certo in merito, ma essendo privo di rivelazioni trascendenti l’unico strumento che posso utilizzare, il mio intelletto, mi fa ritenere assai poco probabile questa ipotesi”.

Risorse: