In tutta Europa, il precariato è una trappola per i giovani. Li salverà il Jobs Act?

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“Continua a lavorare, è l’unico modo per venirne fuori!” – vignetta di Mike Konopaki

Pochi giorni fa, l’INPS ha pubblicato il rapporto dell’Osservatorio sul Precariato relativo al primo semestre 2015. Secondo il rapporto, nel 2015 in Italia c’è stato un marcato incremento dei contratti a tempo indeterminato, e ovviamente il Presidente del Consiglio non ha mancato di sottolineare queste evidenze affermando che si tratta della dimostrazione che «siamo sulla strada giusta contro il precariato e che il Jobs Act è una occasione da non perdere».

Davvero possiamo ritenere che il Jobs Act sia la pietra filosofale che consentirà di alleviare la gravissima situazione occupazionale dei giovani in Italia? Come al solito, proviamo a guardare i dati con attenzione.

In Italia, come sappiamo bene, una parte rilevante dei “giovani” (categoria che da noi si estende fin sulla soglia dei 40) è disoccupata, e quelli che lavorano hanno spesso impieghi precari e sottopagati, tanto da ispirare espressioni come “generazione Co. Co. Co.” o “generazione 1000 Euro”. Il Jobs Act, e soprattutto gli sgravi contributivi previsti dall’ultima Legge di Stabilità, hanno proprio la dichiarata intenzione di favorire la stabilizzazione dei precari e la creazione di posti di lavoro a tempo indeterminato, sia pure con le minori tutele che conosciamo.

I dati dell’INPS, sinteticamente, mostrano che questo obiettivo è stato almeno in una certa misura raggiunto: effettivamente l’incidenza dei nuovi contratti a tempo indeterminato è cresciuta, come si vede nel grafico qui sotto, prelevato appunto dalla relazione citata:

andamento quota tempo indeterminato
Dati relativi ai soli dipendenti del settore privato, esclusi lavoratori domestici ed agricoli

Quindi? Applausi a Renzi e al diavolo i gufi? Un momento, le cose non sono così semplici. Non si tratta tanto di nuovi posti di lavoro, quanto di una fase transitoria di conversione di posti di lavoro “a termine” in posti di lavoro “a tempo indeterminato”, come si vede dal diagramma qui sotto: passati i primi mesi del 2015, nei quali verosimilmente è stata “convertita” una parte dei contratti a termine che in realtà mascheravano un rapporto permanente, la quota di contratti “stabili” sta ridiscendendo fin quasi ai livelli precedenti. Se dopo questo “rimbalzo negativo” i dati non si stabilizzeranno a un livello almeno superiore a quello degli anni scorsi, c’è il rischio che gli incentivi finiscano di fatto a premiare assunzioni che sarebbero comunque state fatte.

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Dati relativi ai soli dipendenti del settore privato, esclusi lavoratori domestici ed agricoli

Bisogna peraltro aver chiaro che l’aumento dell’incidenza di contratti a tempo indeterminato non significa di per sé un aumento del numero totale dei posti di lavoro. E, infatti, quasi come a far controcanto all’INPS, l’Istat ha pubblicato i dati sull’occupazione aggiornati a fine giugno, che dimostrano che il numero complessivo di occupati è sostanzialmente stabile. In altre parole, le misure prese dal Governo sinora non hanno prodotto nuova occupazione, ma hanno favorito la conversione di posti di lavoro a termine in posti di lavoro “a tutele crescenti”; si tratta in sostanza di quanto avevamo già previsto quando a suo tempo avevamo analizzato più a fondo le contrapposizioni sul Jobs Act scrivendo “Scordiamoci che il Jobs Act, qualunque forma assuma, possa provocare effetti importanti sull’occupazione”. Inoltre, è bene anche non dimenticare che gli incentivi offerti alle imprese per i nuovi posti a tempo “indeterminato” hanno un costo, e non irrilevante, per le casse statali. Sono soldi spesi bene, o si tratta in fondo di un “regalo” alle imprese, che non aiuta granché i lavoratori? In sostanza: quanto vale la differenza tra un posto di lavoro stabile (sia pure nei limiti definiti dal Jobs Act) e uno precario? Per farcene un’idea che non sia condizionata dal “tifo” politico, proviamo a uscire dall’orticello strettamente nostrano.

Il fenomeno del precariato infatti ovviamente non è solo italiano, e il Financial Times ha recentemente pubblicato un articolo che sottolinea come in diversi paesi europei il fatto che la maggioranza dei giovani abbia impieghi precari comporti pesanti conseguenze negative non solo sui giovani stessi.

Cominciamo da una constatazione apparentemente positiva: i contratti “flessibili” hanno complessivamente contribuito alla progressiva uscita dalla recessione in Europa. Questo tipo di contratti, lungi dall’essere un’eccezione, sono diventati la regola, specie per i nuovi assunti e specie nei paesi dove il lavoro a tempo indeterminato è maggiormente protetto: in Francia solo il 16% dei nuovi contratti è a tempo indeterminato. Nel complesso, in Europa oltre la metà dei giovani sotto i 24 anni che lavorano ha un contratto precario, che presentano ovvii benefici per le imprese che non rischiano di trovarsi nell’impossibilità di ridurre il personale nei momenti di recessione del mercato.

man-trapped-inside-bottle-13999733166NRSe questo può essere considerato in astratto “fisiologico”, quello che è certamente patologico sono alcuni effetti di questo tipo di contratti, per come sono applicati: i giovani si ritrovano di fatto a sostenere direttamente il costo sociale dell’instabilità economica, mentre le generazioni precedenti hanno impieghi tipicamente molto più protetti. Questo è un fenomeno che conosciamo bene, ma non si tratta di una realtà solo italiana: in particolare, il FT ci dice che in Europa nel suo complesso tra le famiglie in cui l’unica fonte di reddito sono contratti precari il tasso di povertà raggiunge il 22%, un valore altissimo se si considera che si parla di persone che hanno un lavoro, non di disoccupati. Il FT evidenzia che in paesi come Francia, Spagna, Portogallo e, naturalmente, Italia i contratti precari anziché essere un mezzo di accesso al mercato del lavoro si sono piuttosto rivelati una “trappola”, una condizione nella quale i giovani restano incastrati, riuscendo appena a mantenersi e senza concrete prospettive di stabilizzazione.
Una situazione in un certo senso non troppo diversa è quella creata in Germania dai mini-jobs, “lavoretti” part-time che possono rendere al massimo 450 Euro al mese esenti da tasse. Ovviamente non è possibile vivere con 450 Euro al mese, e una parte di coloro che non hanno altre entrate oltre a un mini-job deve ricorrere al sostegno di familiari o all’assistenza pubblica; le differenze sociali stanno peraltro crescendo anche in Germania, creando una classe di lavoratori sottopagati e al limite della povertà (almeno relativa) ben distante dalla classe di impiegati con un lavoro sicuro e un ottimo stipendio, come spiega questo articolo e anche uno di qualche tempo fa del Wall Street Journal.

Insomma, in Europa si sta consolidando un fenomeno di cui, per l’Italia, abbiamo parlato molto tempo fa: l’impoverimento della classe di lavoratori meno protetta e “privilegiata”. In pratica, uno dei risultati delle recenti crisi economiche (almeno dal 2008 a oggi) è stato un incremento delle disuguaglianze, e in particolare s’è esacerbato il fenomeno di pauperizzazione dei lavoratori giovani, fenomeno che ha ovviamente aspetti più o meno critici a seconda del benessere generale di ciascun paese ma che è certamente una “bomba sociale” ad alto potenziale. I dati Istat più recenti ci dicono che, dopo due anni di crescita, la povertà in Italia nel 2014 è solo marginalmente diminuita, e che rimane al 5,6% la quota di famiglie con a “capo” un lavoratore dipendente che si trovano in uno stato di povertà assoluta.

In conclusione: se (e si tratta di un grosso se) la stabilizzazione di posti di lavoro cui stiamo assistendo in Italia avrà l’effetto di favorire sia le imprese (che risparmiano molti soldi grazie agli incentivi), sia i giovani lavoratori (che hanno l’occasione di sfuggire al circolo vizioso di contratti a termine malpagati e periodi di disoccupazione), allora penso che il costo di queste misure sia giustificato, nonostante che i loro effetti siano inevitabilmente transitori e riguardino un “pool” limitato di lavoratori precari. Però sarebbe un grosso errore credere che il Jobs Act stia creando nuovi posti di lavoro; per ragioni che abbiamo discusso altrove non è realistico attenderselo, e in effetti osserviamo che non sta accadendo; sarebbe già molto se si riuscisse a migliorare la qualità dei posti di lavoro, e a dare maggiore tranquillità a una parte della Generazione Y. Secondo me è su questo che dovremo misurare le politiche del lavoro del Governo Renzi: sulla capacità di assicurare maggiore stabilità e certezza di reddito alla quota di lavoratori che sono più esposti alla “trappola” del lavoro che lascia in povertà: creare posti di lavoro è compito degli operatori economici, garantire che i lavoratori godano di condizioni accettabili è compito (anche) del Governo.