L’opzione militare per fermare i migranti – Lo scenario libico

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Il capitolo più spinoso del dossier migrazione riguarda l’opzione militare. Che piaccia o no questa resta una delle possibili e forse inevitabili (ed è di questi giorni la notizia dell’inizio di offensive in Siria). Poiché una grandissima parte dei migranti fugge da zone di guerra e terrorismo (Libia, Siria, Irak…), pacificare quelle zone ed estirpare il terrorismo significherebbe ripristinare una normalità che non imporrebbe più la fuga riducendo drasticamente i flussi migratori. Chiariamoci bene prima di proporre i necessari argomenti: 1) i flussi si ridurrebbero di molto ma non definitivamente; 2) l’opzione militare non è alternativa alle politiche di accoglienza (che non saranno trattate qui); 3) tale opzione potrebbe avvenire solo sotto egida ONU ed entro una forte alleanza internazionale con la presenza anche di paesi islamici; 4) durerebbe diversi anni, con costi elevati anche in termini di vite umane. Conseguentemente: 5) imbarcarsi in questa avventura necessiterebbe di un retroterra politico forte e coeso innanzitutto a livello europeo e poi dei singoli governi nazionali partecipanti. Basta osservare con disincanto come si è mossa l’Europa in queste settimane per capire che questa opzione – pur presente nelle agende politiche e diplomatiche – è molto lontana.

Mi preme fare altre due premesse: la prima riguarda la posizione di Hic Rhodus. Questo blog non è guerrafondaio e in diversi precedenti post abbiamo mostrato un orientamento di accoglienza e disponibilità verso i migranti e di rifiuto dell’idea di guerra. Però ci piace ragionare al di là di stereotipi e ideologie semplificatrici; stabilito che il problema durerà anni e conterà, alla fine, il movimento di milioni di persone, è piuttosto facile comprendere che non si possono accogliere tutti e che le conseguenze sociali ed economiche, per noi europei, potrebbero essere devastanti (ne abbiamo parlato sin dal primo articolo introduttivo del nostro “dossier migranti”, scritto da Alberto Baldissera). Questo porta a pensare che prima o poi, forse, si dovrà intervenire alla radice del problema. La seconda premessa riguarda l’emotività, se non proprio l’ipocrisia. Per alcuni giorni (neppure tanti) la foto del bambino curdo morto sulle spiagge turche, i disperati bastonati al confine serbo, lo sgambetto della giornalista ungherese ai fuggitivi, hanno provocato reazioni nobilissime che hanno mobilitato molti bravi cittadini europei, con code di auto austriache che andavano a prelevare i poveri migranti oltre il confine ungherese, con cori festosi alla stazione di Monaco e cartelli di “Viva gli immigrati”. Avrete tutti notato come sia durato poco. L’emozione non può durare a lungo. E non si comprende perché quel bambino morto vicino alle sponde europee abbia emozionato più delle decine, centinaia di migliaia morti da anni nel conflitto siriano e nel “Califfato” dei carnefici dell’Is (o Isis, o Daesh – come per alcuni è meglio definirlo) o finiti in schiavitù per mano di Boko Haram e così via. Potenza dei media. Tutti fenomeni noti e banali. Serve meno emozione e più razionalità.

Tratta dal sito
Tratta dal sito “Libyan Free Press” che denuncia senza mezzi termini la doppiezza italiana verso Gheddafi

La difficile posizione diplomatica italiana nel caso di un intervento militare in Libia. Per noi italiani lo scenario libico sarebbe fortemente condizionato dalla storia antica (l’epoca mussoliniana delle colonie) e recente (il trattato firmato dal governo Berlusconi pochi mesi prima della caduta di Gheddafi, che impegnava fra l’altro l’Italia alla protezione del regime del colonnello, mentre poi l’Italia ha partecipato alle operazioni militari che hanno portato al rovesciamento e poi alla morte del raìs). Saranno certamente realisti anche in Libia, per carità, ma nessuna azione è senza conseguenze; e anche le bellicose dichiarazioni italiane di inizio anno sono state prontamente bloccate a livello internazionale e dai libici stessi.

Quale interlocutore in Libia? Com’è noto in Libia ci sono molte fazioni in lotta, una sola delle quali riconosciuta dall’Occidente, quella di Tobruk che governa su una parte minima del Paese. L’antagonista di Tobruk è il governo islamista (ma anti-Daesh) di Tripoli. È significativo che un timido tentativo di pacificazione sotto l’egida dell’Onu sia di fatto stato firmato solo da Tobruk. Questo è il primo vero problema: nessuna coalizione può andare in Libia senza un preventivo accordo fra i due maggiori contendenti libici (e possibilmente anche di altri gruppi minori), sia per le necessarie operazioni militari sia per gestire il dopo-pacificazione, salvo ripetere errori micidiali che gli Occidentali, Stati Uniti in testa, hanno già compiuto, per esempio in Irak. Qualunque opzione militare, pur già in agenda come molti sostengono, deve essere preceduta da una forte azione diplomatica non di facciata che includa i Pesi limitrofi, al momento ostacolata dalle profonde differenze politiche fra Tobruk e Tripoli e certamente non facilitata dalle spinte autonomiste di Tuareg e altri gruppi minoritari.

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Quale forza militare? Il secondo grande problema, una volta superato il precedente e deciso l’intervento, è chi va in Libia, come, supportato da chi. Certamente l’Italia, ovvio; abbiamo interessi strategici e l’abbiamo sbandierato in lungo e in largo; possiamo immaginare che Francesi e Britannici, e certamente altri europei, potranno essere della partita, oltre alle forze armati locali fedeli a Tobruk e Tripoli qualora concordi, quasi certamente l’Egitto, che ha un fondamentale interesse a non lasciarsi infiltrare dagli islamisti (e che appoggia Tobruk), probabilmente la Tunisia. Ma poi serve la Sesta flotta USA per quell’appoggio indispensabile, a suon di Tomahawk, che già fu necessario nel 2011 per distruggere le difese di Gheddafi (tenendo anche in mente che la Sesta flotta attuale non è più la spaventosa macchina bellica dell’epoca della Guerra fredda – fonte).

Come si svolgerebbe l’intervento? Qualora gli elementi diplomatici fossero risolti, e una coalizione formata, occorrerebbe un certo tempo per mettere in pratica l’offensiva. Il primo passo sarebbe una “forza di stabilizzazione” di diverse migliaia di militari capace di assicurare la tenuta dell’aeroporto di Tripoli e dei principali edifici governativi; successivamente un dispiegamento molto più complesso di forze speciali, aeree e navali. Mentre il primo tipo di intervento è discretamente realistico, il secondo – per sconfiggere militarmente il Daesh sul suolo libico – è denso di incognite.

Le incognite riguardano il ben noto fatto che il Daesh è sia esercito (e territorio) sia guerriglia; al momento i fedeli del Califfo controllano Sirte e contendono Bengasi e Derna (fonte) ma si calcolano 1.500 gruppi armati per un totale di 100.000 uomini (assolutamente non tutti filo-Daesh e solo in parte apprezzabili come preparazione militare – fonte).

Secondo alcuni esperti la coalizione dovrebbe contare almeno 60.000 unità, 7.000 delle quali italiane (fonte); noi di HR non siamo esperti e non sappiamo se questi siano numeri realistici. Se però attualmente i militari italiani impegnati in missioni all’estero sono circa 4.500 (dati Documento Programmatico Pluriennale per la Difesa per il triennio 2015-2017) per attività di peacekeeping, addestramento e controllo del territorio, è facile immaginare che un’azione di guerra (anche se si troverà una definizione più accettabile) a conduzione italiana, o comunque a forte presenza italiana, dovrà necessariamente vedere l’impiego di diverse migliaia di nostri uomini e donne.

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Siamo pronti ad accettare il prezzo in vite umane? Solo uno sciocco può pensare che un’azione di guerra, oltre che avere lo scopo di uccidere i nemici, non comporti anche vittime fra i nostri. Sia negli scontri diretti sia, e più facilmente, in azioni terroristiche, di sabotaggio, con imboscate e ogni altro mezzo già visto altrove, un certo numero di militari italiani moriranno. I telegiornali daranno molta enfasi a questi lutti, parole saranno pronunciate, bandiere abbassate, ma la guerra, una volta avviata, non si potrà fermare. Se l’Italia preferisce fare ammuina, mostrarsi gagliarda a Primavera dagli scranni del Governo ma poi rinunciare in Autunno ai deserti della Libia, lo dica subito; gli Alleati capiranno. Ma se si vede la Libia come grave minaccia per gli interessi e la sicurezza della nazione (e bisogna dire che questo Governo ha sempre fatto mostra di essere preoccupato quando ancora in pochi in Europa parlavano di Libia) e se si decidesse di partire, non ci si potrà fermare a piangere i nostri morti. Che non saranno pochi. Anche se i contesti sono diversi e non comparabili giova ricordare che nella guerra irachena (seconda guerra del Golfo), fra il 2003 (invasione della coalizione) e il 2011 (definitivo passaggio dei poteri alle autorità irachene) morirono 4588 soldati (per la maggior parte americani), oltre a un migliaio di contractor. Ci furono anche decine di migliaia di morti fra i civili, svariati suicidi fra i militari, per tacere delle decine di migliaia di feriti (fra i militari della coalizione) e i colpiti da sindrome post traumatica da stress con altissimi tassi di suicidio al rientro (fonte). Anche solo limitandoci ai soldati della coalizione morti in battaglia siamo nell’ordine di 5-6.000. Ripetiamo: situazione diversa, epoca diversa, nemico diverso. Il concetto comunque è che quando si smette di bombardare dalle navi o dagli aerei e le truppe devono conquistare e poi difendere un territorio ostile, i morti non si potranno contare in unità, o a decine, ma presumibilmente con cifre a due o a tre zeri, e una parte di costoro saranno italiani.

Infine: chi paga? Proviamo anche a fare qualche volgare conto economico. A febbraio le Commissioni Difesa hanno rifinanziato per soli nove mesi (per mancanza di quattrini) le missioni internazionali per un costo pari a 746 milioni di Euro; 2,7 milioni al giorno (fonte). Salvo chiudere in fretta e furia tali missioni (cosa sostanzialmente impossibile, o con tempi lunghi), serviranno quindi non pochi milioni aggiuntivi per i nostri militari che, questa volta, dovrebbero anche avere maggiore abbondanza di mezzi. La sola missione afghana costa 15 milioni al mese per 500 militari, più forze speciali, elicotteri, caccia e così via ai quali vanno aggiunti costi di intelligence, protezione basi, fornitura armi agli alleati locali e così via. Uno sforzo economico notevolissimo, da pagare pronta cassa che, per essere cinici fino alla fine, può naturalmente presentare anche qualche risvolto economico interessante visto che il nostro Paese è uno dei principali produttori di armi al mondo. Naturalmente questo è un modo di ragionare meschino (sto parlando solo dei soldi): ripristinare l’ordine in Libia significherebbe continuare ad assicurarsi risorse strategiche importantissime (la Libia è tuttora il nostro terzo fornitore di gas e sesto di petrolio) e stroncare il traffico di migranti e le attività malavitose collegate; due obiettivi estremamente importanti e remunerativi per l’Italia. E probabilmente una fredda analisi costi-benefici suggerirebbe di armarsi e partire quanto prima.

Conclusioni aperte. Nostro scopo è mostrare qualche dato e qualche riferimento per un’ipotesi (l’intervento militare) che non deve cogliere impreparata l’opinione pubblica. Se ne parla, ad alti livelli, da tempo e – ripetiamo – in qualche modo si devono fermare i flussi di disperati; si deve pacificare un Paese nostro dirimpettaio preda dell’anarchia; si devono salvaguardare i nostri interessi economici in termini di approvvigionamento energetico. Mettere la testa sotto la sabbia non serve, il Daesh si espande in ampie aree del continente africano oltre che nel Medio Oriente, la circolazione di armi nell’area è impressionante e – come abbiamo visto in Tunisia – il contagio è facile. Ci sono alternative? Forse sì. Un vero accordo fra Tripoli e Tobruk (di cui al momento non si vede neppure l’ombra), l’unione militare di loro forze e di altri Paesi dell’area, Egitto in testa, e quindi una normalizzazione che nasca da una spinta autonoma, interna. Poi? Libere elezioni? È molto facile che succeda quel che è successo in Egitto dopo la cosiddetta “Primavera”: elezioni vinte dagli islamisti, sollevazione popolare appoggiata dai militari e instaurazione di un bel regime repressivo ma amico dell’Occidente, che è poi lo scenario auspicato da Al-Sisi.

Una postilla per evitare equivoci. L’estensore di questa nota ha sue idee sulle complesse ragioni che hanno portato a questa situazione; c’è moltissima colpa dell’Occidente ma, senza reticenze, c’è una quantità considerevole di colpe di Paesi islamici ambigui, per dire così, che hanno sfruttato per decenni l’amicizia occidentale basata sul petrolio e sugli investimenti miliardari mentre tacevano, quando non incoraggiavano, le frange islamiste estreme. Il crollo di Irak e Siria e la nascita del Califfato sono state tollerate, quando non viste come opportunità, da diversi Paesi dell’area, semmai per ragioni diversissime. Ciò premesso trovo sterile fermarsi all’analisi del passato, semmai per fustigarsi, senza avere uno sguardo prospettico che ci porta a ritenere che nei prossimi anni i flussi di disperati continueranno imponenti, se lasciati a loro stessi (ne abbiamo trattato in una precedente puntata). L’Europa, anche l’Europa migliore e più generosa della solidarietà, non potrà accogliere tutti salvo una inimmaginabile virata condivisa in ambito UE di politiche di accoglienza che costeranno, ai cittadini europei, moltissimi soldi che dovranno pagare lietamente confermando alle elezioni i governi che tali politiche avranno approvato. Non mi sembra un quadro realistico. Dovremo inoltre rivedere le nostre fonti di approvvigionamento energetico, e non diciamo che ce ne infischiamo, che quando sarà freddo vorremo tutti accendere la caldaia. Dovremo inoltre accettare di avere il terrorismo alle porte, e oltre a potenziare le nostre intelligence ci dovremo rassegnare a più frequenti attentati in Europa (sull’infiltrazione di cellule jihadiste in Europa abbiamo scritto di recente). Insomma: quali siano gli svantaggi è piuttosto chiaro: ci saranno costi, e disagi, e problemi. Tutto questo per non dire a priori “l’intervento militare no”. L’intervento militare comporta altri costi, altri disagi e problemi, fra i quali le vittime naturalmente. È un’opzione. Occorre sapere cosa può comportare. E saper decidere al momento giusto.

Per approfondire lo scenario libico:

In copertina: il tenente Giulio Gavotti realizza il primo bombardamento aereo della storia militare mondiale: in Libia (1911). Fonte.