Quello di Teheran non è un attacco terroristico come quelli degli ultimi anni in Europa. In Europa, Isis (Daesh) ha una strategia politica molto chiara: mostrare a seguaci e potenziali adepti il fallimento del modello integrativo occidentale; punire gli infedeli “crociati” come strumento di comunicazione e costruzione identitaria antagonista; reclutare infine combattenti. Questo ciclo è un loop continuo senza altri fini. Far radicalizzare musulmani in occidente perché tengano alta la tensione; tenere alta la tensione affinché i paesi colpiti si trovino in difficoltà ed emergano le pulsioni islamofobe e lepeniste che, inevitabilmente, inaspriranno lo scontro. E così via. Chi si nutre di terrore, come il Daesh, non ha bisogno di argomentare oltre la propria strategia; è una strategia di sopravvivenza e sviluppo. Radicalizzando lo scontro con l’Occidente anche la componente militare unisce i ranghi, rimpiazza i caduti, dà senso alla propria azione.
L’attacco a Teheran ha tutta un’altra storia e ragione e strategia. L’egemonia del petrolio e, attraverso essa, l’egemonia politica nel quadrante. Cominciamo dal petrolio. Il suo prezzo negli ultimi trent’anni è passato dai 13 dollari del 1986 ai 35 del 1990, dai 13 del 1999 ai 135 del 2008. Da fine 2009 il prezzo si è stabilizzato intorno ai 90-100 dollari al barile fino al 2014, quando è cominciato un crollo verticale (sostanzialmente identico per Brent e WTI) favorito dall’Arabia Saudita che, invece di tagliare la produzione, ha tagliato il listino per cercare di mettere fuori gioco altri produttori e mantenere le quote di mercato ad ogni costo.
Il gioco economico è complicatissimo: i produttori principalmente colpiti furono Iran e Iraq che traevano crescenti vantaggi con le esportazioni verso l’Asia (Cina in particolare). Già all’epoca alcuni analisti azzardavano che questa posizione facesse parte di una strategia condivisa con gli Stati Uniti per penalizzare la Russia, con l’economia in grande affanno, anche se le conseguenze sarebbero state disastrose per molti altri paesi (p.es. Venezuela) e se alla lunga avrebbe penalizzato le stesse aziende petrolifere americane (fonte):
quella che si sta verificando [nel 2014] e che sta dando origine allo scenario che abbiamo sotto gli occhi [è] la quasi bancarotta della Russia e i tanti problemi per l’Iran, Stati nemici (in questo senso anche degli alleati-rivali americani) e colpiti da sanzioni le cui economie sono legate a doppio filo al comparto energetico. Con un petrolio troppo conveniente da quelle parti, dove i proventi energetici pesano oltre la metà del bilancio statale e costituiscono il 70% delle esportazioni, rischia di saltare tutto. Non è un caso che il valore del rublo sia precipitato – ieri un dollaro si scambiava con 80 rubli, un euro con 100, neanche la corona norvegese se la passa bene – spingendo la Banca centrale moscovita ad aumentare (inutilmente) il costo del denaro dal 10,5% al 17%: sesto ritoccone da marzo. In fondo, Washington ha finalmente trovato un’autonomia energetica da cui difficilmente mollerà la presa e Riyadh è da sempre sua (scivolosa) alleata: le ragioni della decisione possono dunque essere legate alla volontà di mettere in ginocchio Russia, Iran e, in misura minore, Venezuela (Simone Cosimi su Wired del 17 dicembre 2014).
Come vedete mi sono basato su analisi dell’epoca, per mostrare come non fosse un segreto che dietro i valori dei barili vi fosse una guerra geopolitica, prima ancora che commerciale.
Col Venezuela la partita è stata facile, anche con l’aiuto di Chavez, e il Paese è allo stremo. Ma con i veri antagonisti le cose sono più complicate; l’Iran sta guadagnando posizioni specie in seguito all’accordo sul nucleare del 2015; le sue esportazioni verso l’Asia volano, con ulteriori possibilità di espansione; aggiungete ora le crescenti buone relazioni con la Russia (e con la Cina, il primo partner economico per esportazione). La Russia, oppressa da sanzioni e soffocata dalla pressione della NATO ha bisogno di salvaguardare la Siria perché rappresenta il suo unico alleato nell’area capace di offrirgli una base diretta sul mediterraneo e trae vantaggi nell’aggregare, nella compagine, un Iran antagonista dell’Arabia e degli USA e, recentemente, una Turchia che ha fatto una giravolta di 180° da anti-Assad e anti-Putin a pro-Assad e pro-Putin, per contrastare il sogno di un Kurdistan libero e per alimentare la follia neo ottomana di Erdogan a spese di Iraq e Siria. Aggiungete una buona dose di conflitto fra sunniti e sciiti (alimentato negli ultimi decenni a fini tattici), di delirio wahhabita saudita e, infine, di trumpismo, e il gioco – pericolosissimo – è fatto.
Se vi siete un po’ persi in questa intricata rete vi faccio un riassunto molto semplice: localmente, in Medio Oriente, si giocano le seguenti partite: Arabia Saudita contro Iran per l’egemonia politico-economica; la partita pro e contro Assad con obiettivi differenti fra i vari partecipanti. Dietro entrambe queste partite locali se ne gioca una più grande, quella USA contro Russia che intervengono, localmente, in funzione dei loro interessi nell’area o anche, semplicemente, per indebolire l’avversario. Tutto il resto (Isis, conflitto in Yemen…) sono mosse di una partita a scacchi più ampia, manovre che si inseriscono in un quadro più generale. Se leggete in questo quadro la recente visita di Trump e l’immediata presa di posizione contro il microscopico Qatar capite che si tratta di una resa dei conti locale e globale. A livello locale
la vicenda appare come il tentativo di un gruppo di autocrati arabi, guidati dai sauditi, di mantenere il controllo della regione e completare la loro controrivoluzione dopo le rivolte arabe del 2011, durante le quali uomini e donne della regione hanno manifestato per chiedere maggiori libertà, diritti, giustizia e dignità nelle loro vite […]. Il crimine del Qatar, agli occhi dell’Arabia Saudita, sta nell’insubordinazione e nel rifiuto di mettere a tacere ogni voce critica con armi e denaro (Rami Khouri su Internazionale).
A livello internazionale, invece, occorre destabilizzare l’Iran indebolendo, in ciò, l’asse russo. Trump in Arabia ha ottenuto molteplici risultati, tutti spendibili nel suo traballante fronte domestico: lotta al terrorismo (indipendentemente che sia da sempre ampiamente finanziato dai suoi interlocutori arabi); accordi commerciali (110 miliardi di dollari in armi che finiranno, in buona parte, proprio ai miliziani Daesh, ma pecunia non olet), isolamento del nemico storico iraniano, sgambetto a Putin. E da qui torniamo all’attentato a Teheran, realizzato con successo a pochi giorni di distanza. Trump, ribaltando la politica del suo predecessore, ha puntato il dito contro l’Iran come paese amico dei terroristi e il Daesh, col suo attentato, ha mostrato (oltre alla falsità di quell’affermazione) che intende accreditarsi come alleato dei sauditi (che già lo finanziano) contro i blasfemi sciiti (economicamente in crescita come competitor). L’Arabia ha pure ottenuto molteplici risultati: un riconoscimento dallo storico alleato americano molto tiepido durante la precedente amministrazione; una spinta ulteriore contro il nemico iraniano; una sostanziale impunità di fatto nel suo torbido rapporto col Daesh. Che poi il Qatar, ora pesantemente minacciato, ospiti la più importante base americana in Medio Oriente, rendendo imbarazzante la presa di posizione di sauditi e americani, è solo un dettaglio; è piuttosto chiaro che ringhiare contro il microscopico Qatar è semplicemente un segnale contro l’Iran; e il Daesh ha chiaramente capito l’antifona.
Concludendo, oltre al dolore per le vittime, oltre ad aggiungere una tacca alla sequela di attentati terroristici, occorre considerare il particolare contesto geopolitico e il significato di questo attacco, assai differente dai precedenti. Questo di Teheran appare come un salto di qualità, in negativo, nella crisi mediorientale; una crisi che rischia di allargare il conflitto armato siriano trascinando altre potenze regionali, che rischia di trascinare Usa e Russia in un confronto importante, rischia di complicare i rifornimenti di greggio con conseguenze economiche rilevanti. Tenete infine presente l’ambigua posizione della Turchia: nella NATO ma filo-russa; tenete presente la crisi israelo-palestinese nell’area; tenete infine presente l’inesistenza di una voce europea.