Ragione e Passione

Incipit

Periodiche reazioni ad alcuni post di questo blog, tutti sinceramente graditi, mi hanno fatto meditare sulle ragioni di dissensi a volte così radicali. Prendendo solo l’ultimo caso, quello sullo Ius Soli, molti hanno apprezzato ma alcuni storici lettori, che ci seguono sin dall’inizio, no. Sono stato anche tacciato di fascismo (da altri), il che mi fa un pochino ridere. Non mi fa invece ridere questa incomprensione di fondo, non con tutti, è vero. L’argomento ha un rilevante interesse sociologico per una ragione che riepilogo in questo modo: ammesso che sia vero che il mio post, come io ritengo, non si sia schierato né a favore né contro il tema trattato (l’approvazione della legge sullo Ius Soli), perché allora si sono arrabbiati sia quelli a favore che quelli contro? La mia risposta è la seguente: si sono arrabbiati proprio perché non mi schieravo esplicitamente al loro fianco, a favore oppure contro. La loro opinione in merito era così forte, così intrisa di ovvio buon senso, manifesta verità, che il fatto che io non lo sottolineassi schierandomi con loro li ha fatti arrabbiare.

Comunque qui non parlerò affatto di quel post e solo implicitamente sul perché questo accada. Farò invece un discorso generale su Ragione e Passione, su Razionalismo e Ideologismo, sul Novecento che ci è restato appiccicato addosso e il nuovo millennio che non ha neppure un nome decente con cui chiamarlo (lo Zerocento?).

Pensando a questo post mi sono venute molte idee e altrettante ne ho scartate, perché questo è solo un blog, io sono solo bezzicante (almeno di fatto) e i lettori hanno una pazienza limitata e vorrebbero arrivare subito al sodo, e non sorbirsi una filippica stile Critica della ragion pura. Pensa e ripensa è venuto fuori un pamphlettino, una specie di saggetto senza pretese.

E poiché devo usare una prosa nuova, moderna, tecnologica, ho pure inventato una sorta di apologo, che inizia così.

L’apologo dei robot razionali

Immaginate una società di robot intelligenti. Niente esseri umani. Questi robot vivono felici in un pianeta simile alla Terra, anzi identico, che si chiama 3RAR. Poiché sono evoluti, hanno una vera e propria società con i tipici problemi di una qualunque società, proprio come noi umani. Ebbene, questi robot si trovano a dibattere, cercare soluzioni e prendere decisioni per cercare di essere più felici, ammesso che i robot possano essere felici. I robot hanno problemi semplici, problemi complicati e problemi complessi. Un problema semplice è, per esempio, come costruire una strada, che loro pensano sia utile, fra il punto AB56KK3 (la toponomastica robotica è sempre così) e il punto BHH60??D1. Che la strada sia da fare è deciso, quello che loro vogliono appurare è come farla, che tracciato seguire, che costi sostenere e così via. In questo caso i nostri robot si rappresentano il problema pressapoco così:

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I nostri robot hanno scelto il massimo dell’efficacia (una bella strada diritta) e il massimo di efficienza (ottimizzazione tempi, nessuno spreco…).

Per mera coincidenza anche noi sulla Terra abbiamo problemi molto simili, anzi identici. Ci capita per esempio di dovere costruire una strada fra Piovarolo e Bagnaciuchino. Anche da noi sulla Terra sono tutti d’accordo che quella strada è proprio necessaria e si tratta solo di progettarla, cantierarla (i terrestri dicono così) e reclutare un po’ di umarel. Anche qui si tratta di scegliere tracciati, materiali e decidere i costi e quel che accade è più o meno questo:

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Piccola digressione: questo problema è semplice, in contrapposizione coi prossimi, perché è meramente tecnico. La strada è decisa e – fin qui – non abbiamo messo in discussione la sua necessità né altre questioni che implichino azioni sociali più complesse, che in realtà stiamo per trattare.

Infatti, su 3RAR, le cose sono improvvisamente diventate più complicate. Avendo sentito parlare della democrazia del lontano pianeta Terra hanno deciso che la loro incipiente umanità aveva bisogno di dibattito, dialogica, dialettica e discussione, senza farsi mancare un pizzico di retorica. Si fa presto a dire efficacia ed efficienza – sostiene con voce ben oliata Socra25-C (‘C’ è la serie, un po’ vecchiotta ma molto rispettata e autorevole) – ma abbiamo considerate le conseguenze, valutati i perché e infine analizzati i percome? Questa cosa di discuterne, ciascuno esprimendo le sue opinioni, per giunta tutte legittime e parimenti accolte, piace da arrugginire ai robot che discutono per due lunghe ore (un tempo veramente incredibile, secondo i loro standard), e giusto per darvi un resoconto grafico di com’è andata ecco un’altra bella mappa concettuale:

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E’ vero, i problemi erano molti, neppure le loro menti elettroniche l’avevano immaginato. Altro che fare una semplice strada diritta, si dicevano l’un l’altro con metalliche pacche sulle schiene, occorre discutere e analizzare i problemi, e solo dopo fare la strada! Così i bravi robot, guidati da Tesla37-K iniziarono a pianificare le loro strade, a partire dalle vere necessità di traffico, considerando l’orografia, il paesaggio (i robot tengono moltissimo al paesaggio), i costi veri per le casse cittadine e per le tasche robotiche e via discutendo; la pianificazione veniva poi fondata su reali valutazione economiche e sociali, ogni informazione era diffusa e in ogni momento i robot potevano vedere cosa si stava facendo coi loro soldi.

Naturalmente anche gli umani incominciavano a impicciarsi di democrazia, partecipazione, uno vale uno, cittadinanza attiva e altre meravigliose conquiste del vivere civile, e si impegnavano a capire perché mai occorresse costruire una strada proprio lì, perché mai così fatta, perché così larga e costosa visto che ci passavano solo tre carretti, perché mai questo e perché mai quello, e chi la paga, e chi ci guadagna, e perché proprio attraverso l’orto mio, e perché non facciamo finalmente una strada rosa così verrebbero i turisti e perché e perché e ancora perché, facendo un bordello tale che una decisione, sì, venne ben presa, ma pochissimi ci capirono qualcosa. In breve le cose andarono così:

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Dopo, qualcuno disse che la pianificazione era stata fatta coi piedi e infilandoci soluzioni discutibili per stare nei tempi. La valutazione fu affidata a una società del cugino dell’Assessore, e i tavoli di discussione con la cittadinanza, fatti in orari proibitivi, erano talmente complicati e condotti con linguaggio tecnico che la gente a un certo punto smise di andarci. Quando poi un tale si alzò per chiedere un bilancio economico dell’opera, l’Assessore, col volto stravolto e l’occhio umido gli chiese se forse stava mettendo in dubbio la sua onestà, e la cosa finì lì.

Ma i nostri robot non si sono fermati e sono approdati alla complessità dopo avere letto questo post di HR; la complessità non è semplicemente una cosa molto complicata; è complicata in una maniera particolare, non mediabile, di difficile o impossibile sintesi. Ma non si sono mica persi d’animo. Intanto hanno capito che non si può sempre solo trattare gli argomenti senza vederli come sottosistemi interagenti con altri, in cui un gran numero di altri robot fanno cose semmai differenti ma con relazioni e retroazioni anche sulla benedetta strada; tutto interagisce: ogni robot con gli altri, ogni attività robotica con le altre, e occorre considerare il quadro d’insieme per poter decidere oculatamente. Ecco come vedono il problema della complessità i bravi robot:

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Non vi sorprenderà sapere che gli umani, più o meno nello stesso periodo, hanno affrontato lo stesso problema. Anzi, sulla Terra i sociologi (umani specializzati a spiegare i disastri dopo che sono avvenuti, mestiere che fra i robot non si è ancora sviluppato) hanno scritto un sacco di libri sulla complessità e quindi hanno affrontato il problema complesso della loro stramaledetta strada con una certa baldanza, col seguente risultato:

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Naturalmente, sia il lontano pianeta dei robot sia quello dei terrestri hanno la loro brava strada. Anzi, più d’una, e ospedali, scuole, pizzerie e sale giochi, camping, officine, campi di girasole e asili nido. Le differenze sono nel fatto che in quelle dei robot si discute, si rilevano bisogni, si valutano, si programma la risposta, si verifica che le cose funzionano, si osservano variabili intervenienti, si rendiconta, si corregge e via così, con tante strade utili, tante scuole dove servono, asili nido a sufficienza e via discorrendo. Si fa così per le infrastrutture ma si fa la stessa cosa per leggi non infrastrutturali, per esempio per regolare l’unione dei robot con lo stesso microcircuito, per stabilire se un robot può proteggere i suoi circuiti se viene aggredito, all’interno della propria officina, da droni malintenzionati, così come se concedere la robotinanza a robot di altre fabbriche che stanno venendo in numero preoccupante nei loro distretti industriali.

Piccole differenze fra esseri umani e robot

Gli umani, e in particolare gli Europei, no. Perché sulla Terra non siamo mica macchine e abbiamo passione, abbiamo sentimento, abbiamo il senso della nostra storia e della nostra appartenenza. I robot non hanno storia; anche se intelligentissimi e capaci di creatività e tutto quello che vi pare, una possibile Storia dei robot sarebbe una cronaca dei miglioramenti tecnologici, non di guerre, devastazioni, genocidi, stupri, saccheggi, invasioni, devastazioni ambientali, tratta di esseri umani, uso catastrofico dell’energia nucleare e altre quisquilie che hanno caratterizzato la nostra civiltà e fatto la fortuna degli storici. Poiché i nostri robot hanno la stessa intelligenza umana e, come visto sopra, sanno progettare (quindi anticipare il futuro), valutare (quindi assumere atteggiamenti critici) e hanno pure imparata la democrazia, cos’è che fa, degli esseri umani, una specie così distruttiva, sprecona, faziosa e tutto il resto? Le risposte (più d’una) sono complicate e tutt’ora oggetto di discussione e studio. Il quesito principale è

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Si tratta di una “fotografia” della realtà poi elaborata in qualche modo? Ma non è possibile questa fotografia senza un preesistente concetto che classifichi – e poi elabori – quella informazione sensoriale. I concetti quindi sono preesistenti? E come sarebbe possibile? Ci sono molte risposte che qui non tratteremo; il tema dei concetti è rilevante perché è propedeutico a quello della formazione delle idee, dei valori, delle credenze, fino alla formulazione di linguaggi formali come allo sproposito di idee stereotipate. Mentre i robot – almeno questi di 3RAR – hanno un vasto set precostituito di concetti e un bellissimo algoritmo per svilupparne di nuovi (tutti molto razionali e utilitaristici), gli umani di Terra sviluppano i loro concetti – andando molto all’ingrosso – in questo modo:

  • tramite l’educazione primaria e secondaria;
  • tramite le relazioni, a partire da quelle fondamentali familiari;
  • tramite successive esperienze di natura variabile;
  • tramite il linguaggio, che nasce assieme ai concetti ma retroagisce su di essi.

Ciò significa che se nasci a Manhattan, studi alla UCLA, ti specializzi a Berlino, sposi un/una giapponese, vai a vivere a Roma, sai cinque lingue, hai tre Master e – fondamentale – un papà ricco, quasi certamente la tua visione del mondo sarà diversa da chi è nato e vissuto a Piovarolo, andato una volta, durante il viaggio di nozze, a Roma, ha la terza media e coltiva con discreto successo il suo vigneto. Se anche i due hanno lo stesso QI, probabilmente le loro vite saranno molto differenti.

Fuori dalle dichiarazioni lapalissiane sulle ingiuste differenze di ceto e classe, quello che ci interessa ora è la diversa visione del mondo dei due. Non solo il primo, fortunello, ha più conoscenze e competenze e, probabilmente, una maggiore apertura al nuovo e al diverso, ma – questo è veramente fondamentale – avrà più parole per poterlo dire. Avere più parole non significa semplicemente andare meglio nei compiti in classe di italiano; significa poter elaborare più concetti, e migliori, e più specifici; e quindi sapere e potere vedere il mondo in maniera più complessa e ampia. Su questo tema abbiamo scritto tantissimo, qui su HR, e il lettore interessato troverà approfondimenti e indicazioni scientifiche.

Il primo fondamentale elemento di differenza coi nostri robot, quindi, è che loro hanno le stesse finalità (ottimizzare il loro mondo) perché hanno lo stesso imprinting, mentre noi umani abbiamo finalità differenti, o apparentemente simili, o simili solo in parte, a seconda delle infinite circostanze della vita di ciascuno: patrimonio genetico (QI), famiglia di origine, occasioni formative ed esperienziali e via enumerando.

La questione si complica, e non poco, perché questa teoria di esperienze, capacità, occasioni, hanno bisogno di incanalarsi, trovare una ragione sociale. Non riusciamo a vivere isolati ciascuno con le proprie idee, abbiamo bisogno di condividerle e di trovarne conferma. Il mondo sociale viene costruito ogni giorno sulla base di rituali, cliché, formule linguistiche rassicurative per lo più inconsapevoli che ci fanno sentire protetti entro la nostra comunità (la strada, il quartiere, la città; oggi le comunità di pratiche e quelle virtuali). Il più potente collante delle comunità sono i sistemi strutturati di idee e valori che formano le religioni e le ideologie.

Riepilogando: nasciamo e sviluppiamo non già una capacità concettuale generale, ma quella specifica capacità concettuale che la nostra famiglia e comunità ci offre, e la consolidiamo – o ce ne discostiamo in parte elaborandone di più complesse – in base a tutte le differenti esperienze della nostra vita. E’ così che le nostre idee, i nostri valori, si sviluppano, e si sviluppano anche le preferenze verso certe categorie di valori, la propensione a sostenere certe idee anziché certe altre. Poi la cappa pesantissima delle ideologie ci cristallizza in determinate concezioni del mondo; le ideologie sono sistemi chiusi (il contrario dell’apertura esperienziale menzionata sopra): non ammettono deviazioni ma, in cambio, rassicurano, sia perché danno una risposta a tutto, sia perché forniscono identità a molti, che si ritrovano confortati dalla mancanza di solitudine, dalla presenza di molti che parlano lo stesso linguaggio.

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Naturalmente – e anche di questo abbiamo già scritto su HR – si diventa anche birichini. Lungi da me riaprire qui il tema del bene e del male, della politica che si fa truffaldina, demagogica, mera comunicazione. Il discorso è stato fatto altrove e qui mi basta dire che deriva, all’origine, dalla stessa diversità di cultura, di linguaggio, di esperienze e quindi di valori. Ecco perché su 3RAR nessun robot prende mazzette, le aziende appaltate costruiscono la strada a puntino e i magistrati sono tutti disoccupati, mentre da noi no.

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E così anche il nostro modo di esprimerci, frutto e causa di questi pregiudizi, risulta caotico, inconciliabile, stereotipato e identitario.

Se ne può uscire? Naturalmente no se il modello è quello robotico di 3RAR. Noi siamo fatti così, nasciamo ignari e progrediamo lunga una vita solo in minima parte scelta da noi, educati da estranei che solo coll’addestramento impariamo a riconoscere poi come genitori, come insegnanti, come modelli. Ma poiché – a differenza degli amici robotici – abbiamo questa devastante elasticità mentale, possiamo anche immaginare dei percorsi formativi ed educativi aggiuntivi. Poiché i nostri schemi mentali evolvono col progredire delle nostre esperienze, possiamo ben immaginare un’auto-educazione, uno sforzo per liberarci dalle più evidenti pastoie delle ideologie, per esempio. E’ assai meno difficile di quanto si creda purché si metta in campo una sola essenziale pre-condizione: la volontà di farlo. E questa volontà è fatta di disincanto verso il mondo e rinuncia identitaria. Se impariamo a vedere il mondo nelle sue manifestazioni stereotipate e ideologiche, e ci facciamo forti di noi stessi, anziché di pensieri pensati da altri, possiamo imparare a staccare qualche cordone ombelicale, possiamo mettere in soffitta qualche cara e consolatoria certezza che ci accorgiamo essere totalmente inattuale. Poi resteremo umani e falliremo, ma saremo un po’ meno umani e vedremo con più lucidità le ragioni di tali fallimenti.

Manifesto del bezzicantesimo razionalista temperato

  1. La verità non esiste;
  2. la crescente complessità sociale rende possibile la coesistenza di più verità;
  3. il nostro giudizio sul mondo parte sempre da scelte inconsapevoli organizzate dalla nostra educazione ed esperienze; ciò vale sin dalla stessa selezione dell’oggetto sottoposto a giudizio, ritagliato da uno sfondo di innumerevoli altri oggetti; nessuna nostra scelta è quindi neutrale; essere consapevoli di questi condizionamenti non è bastevole per superarli, ma ci mette nell’indubbia situazione critica di osservatori consapevoli, disponibili quanto meno a non considerarli degli a priori indiscutibili;
  4. in virtù del fatto di appartenere a una chiesa, a un partito, a una loggia, a un circolo, a un’associazione, noi siamo meno liberi, con evidenti differenze fra le varie circostanze. Con tutto il rispetto verso le persone religiose, se la parola di Dio costituisce un a priori indiscutibile esse sono meno libere di pensare il mondo di quanto lo sia la persona senza tale vincolo; con grande rispetto verso le persone con una forte credenza politica, se questa implica degli a priori (il proletariato, la generazioni che hanno combattuto per la democrazia, l’identità nazionale…) esse sono meno libere; se delle persone hanno dei valori etici espliciti che costituiscono degli a priori (amare il proprio simile, accogliere gli immigrati perché siamo umani…) ebbene anche costoro sono meno libere nella costruzione del loro mondo;
  5. ciò non significa negare l’etica, ritenere inutili e falsi tutti i valori, ma fondarsi su valori espliciti e senza a priori. Lo Ius Soli non deve essere una risposta etica, perché i valori non sono negoziabili e l’etica è l’etichetta incerta di asserti variabili. Lo Ius Soli può essere utile o inutile; necessario o non necessario; risolvere problemi, non risolverli o aggravarli. L’Europa non può essere il male assoluto o la panacea di tutti i mali: serve o non serve in un determinato modo anziché un altro. Le unioni civili non sono giuste o ingiuste, ma una risposta giuridica a un problema sociale di cui si devono potere descrivere le conseguenze negative alle quali si è data (oppure no) soluzione;
  6. privarsi di a priori costrittivi consente di scivolare sui pareri, veleggiare sulle opinioni, senza cercare forzosamente un approdo qualunque, non meditato ma rassicurante. Non sposare nessuna tesi, nessuna chiesa e nessuna ideologia significa essere liberi di sceglierne una qualunque in base alle opportunità del momento; capire il momento, riflettere liberamente, ed esprimersi nel merito non cercando forzose coerenze entro cornici prestabilite e rigide, non più capaci di raccontare il mondo; avere idee diverse a seconda delle diverse circostanze è indice di libertà;
  7. per tutto questo occorre una enorme attenzione al linguaggio;
  8. se molte persone manifestano lo stesso pensiero utilizzando lo stesso linguaggio, allora è certo che siamo in presenza di omologazione; se non si crea mai scandalo, allora siamo in presenza di omologazione;
  9. i social media sono fra i massimi responsabili del pensiero omologato, succedaneo del pensiero ideologico del Novecento ma più stupido;
  10. non è diffusa la percezione dello iato fra Novecento e Nuovo Millennio. Il mondo è cambiato velocissimamente e radicalmente, il linguaggio – fucina di pensieri e valori – è cambiato radicalmente; continuare a pensare al mondo del nuovo millennio col linguaggio del Novecento è la più grande origine della crisi che stiamo vivendo come europei.