Come in tanti, anzi: come in tanti fra i pochi rimasti, cerco di pensare a cosa fare per rinascere, tornare a combattere, riconquistare un timone culturale nel paese. Penso a cosa possa fare la sinistra (o meglio dire “i gialli”, nel senso indicato QUI, che se no ogni volta qualcuno mi schifa per avere usato quella locuzione topologica). Calenda o Zingaretti? Renzi sì o no (o meglio: qualche clone di Renzi sì o no)? E Bersani, tornerà? E i cattolici democratici che fine hanno fatto (pare a me o non se ne parla più dal 4 marzo? Tutti evaporati?). Ma, soprattutto, soprattuttissimo: ci sono le elezioni Europee, come evitare una botta terrificante?
E mentre sono lì, nel mio studiolo, con l’occhio perso in un futuro annichilente senza la sinistra (i gialli), mi viene un pensiero: ma non è che in realtà steremo meglio? Ma non sarà che ci angosciamo perché non vediamo, semplicemente e banalmente, la fine di un ciclo storico in cui certe forme organizzate di politica avevano un senso, e non cogliamo il fatto che questo senso è stato smarrito, o più semplicemente reso obsoleto dal fatto che, perdincibacco, non siamo più nel Novecento, quelli del Novecento sono tutti morti (pace all’anima loro) o sono vecchi imbolsiti che non sanno più vedere altro che ciò che vedevano allora; non sanno dire altro che ciò che hanno detto per decenni; non hanno altro lessico, altre prospettive, altre routine…
Questo pensiero folgorante mi rinfranca. O meglio, anche qui: capisco che potrebbe essere rinfrancante se lo sviluppassi un pochino e vedessi che ci può portare qualcosa di buono. Proviamoci assieme.
Premessa: credo nella funzione dei partiti (almeno fino a un po’ di tempo fa) e credo nella politica come professione. Qualunque ragionamento deve partire da qui e non (OMG) da un’idea populista-qualunquista, che sia tutto un magna magna, che i politici pensano solo ai loro interessi e altre scemenze simili. L’idea del magna magna e dei politici predatori, laddove corretta, deve considerare che questa è una conseguenza e non una causa: una conseguenza di deficit di democrazia, di controllo, di opinione pubblica informata e altro ancora. In un sistema politico perfetto (e solo ideale, perché non ne esiste uno al mondo) la democrazia funziona proprio perché i cittadini partecipano nei modi previsti, e quindi attraverso rappresentanze coagulate in partiti eleggono la classe politica che lavorerà negli interessi del popolo.
Sì, lo so, non è così, e abbiamo speso giorni e notti per scrivere numerosi post su HR spiegando i perché dei fallimenti della democrazia, fallimenti che – per quanto riguarda il nostro paese – devono essere principalmente imputati al popolo, e non a una classe politica in cui, assieme a splendidi esempi di lavoro competente e disinteressato, esplodono vicende pochissimo edificanti che alimentano i cliché, e via discorrendo tutto quello che diciamo da anni e che già sapete.
Quindi: viva la politica fatta bene, viva i politici rigorosi, viva le forme della politica che ci possono aiutare a sviluppare democrazia, benessere, inclusione e felicità.
Ma i partiti? I partiti sono morti. La forma “partito” è morta col giro di boa del Novecento che, risvegliandosi coll’abito nuovo del terzo millennio ha scoperto di non averne più bisogno.
Cos’è un partito? Essenzialmente un’associazione privata che compete contro altre per la gestione del potere politico, sulla base di contrapposizioni di idee e programmi. Una formula di partecipazione sostanzialmente ambigua perché i partiti non sono organismi dello stato ma sono essenziali al suo funzionamento (e previsti in Costituzione!); sono cangianti, nascono e muoiono anche se le istituzioni restano identiche o simili; possono addirittura spaccarsi e mutare idee dopo le elezioni, per le quali hanno concorso in forma e con programmi differenti.
Questo strano animale, che nasce secoli fa e si evolve nella forma e nel ruolo col progredire dello stato moderno, è stato per tutto il Novecento un elemento centrale della vita politica per queste semplici ragioni:
- accoglieva, aggregava ed educava alla politica una generazione stremata dalla guerra e dal fascismo;
- i partiti erano distintivi, identitari, chiaramente schierati ideologicamente e programmaticamente; essere “comunisti”, per esempio, voleva dire essere assolutamente differenti e distanti dai democristiani, per non dire dai repubblicani e liberali;
- i politici erano legati ai loro territori, li interpretavano, li incarnavano, e in Parlamento portavano le istanze che di quel territorio erano esponenti, e riportavano poi sul territorio i risultati ottenuti.
Oggi i partiti non hanno più alcuna di queste caratteristiche; i partiti sono lontano dagli elettori, hanno posizioni spesso troppo sfumate e sono crollate le tradizionali rappresentanze. I partiti sono diventati comitati per la gestione di un potere che ruota attorno a leader clanici; nel PD, per esempio, c’è la forte tribù renziana e una coalizioni di piccole tribù insignificanti alleate per scalzarlo. Ok; per fare che? Se un elettore piddino alle prossime primarie deve scegliere, lo fa sulla base di Renzi simpatico o antipatico? Qualcuno dirà: ma, in effetti, qualche differenziucola nei programmi c’è, fra Renzi e i suoi oppositori. Davvero? Avete letto dei programmi? Li avete letti e avete capito che uno dei competitori ha idee economiche, geopolitiche, sul welfare, sulla sicurezza, sul lavoro, bla bla, differenti dagli altri competitori? O avete leggiucchiato, qua e là fra le righe delle cronache giornalistiche, che qualcuno è vaghissimamente più incline ai 5 stelle e qualcuno dice “giammai!”; che qualcuno parla con categorie più ideologiche e qualcuno meno, che qualcuno dichiara la sua eterna amicizia a qualcunaltro per far capire a un terzo che potrebbe allearsi con lui o no (vedi Cottarelli – deludente in questo – che dichiara aderenza al giustizialismo di Davigo)… Insomma: del partito novecentesco, utile, democratico, pedagogico, popolare, non è rimasto un bel nulla. E poiché scrivendo mi è tornato in mente che avevo già affrontato l’argomento assai prima della disfatta del 4 marzo (che noia, qui su HR siamo sempre in anticipo…) rimando a quel post per la disamina sulla morte dei partiti. PD in testa.
Libero quindi da questa necessaria lunga premessa torno ab ovo: ma siamo sicuri di dover celebrare un lutto sanguinoso, una perdita per la democrazia? Non può essere che l’evoluzione storica della forma democratica del nuovo millennio chieda la fine questi pesi ormai insopportabili, questi apparati ormai in perenne conflitto interno (accade in tutti i partiti, qui non parlo del solo PD)? La politica ridotta a cronache degli insulti reciproci, i partiti ridotte a sepolcri senza idee, i leader ridotti a lotte per una supremazia sul nulla…
Mi viene da pensare che questa sia un’ulteriore ragione della vittoria dei grigio-neri (se osate chiamarli giallo-verdi vi caccio da questo blog!); non la principale, certamente, come abbiamo ben visto in altri articoli, ma una ragione coerente con tutto il resto, con la demagogia populista, col vuoto di idee… ma vedete come i 5 Stelle si siano sempre presentati come un movimento di popolo (anche se non è vero per niente), con la fuffa del non statuto, del non capo ma portavoce… E la Lega? La trasformazione salviniana da partito localista, rappresentante di interessi specifici, a blob nazionale lepenista, rappresenta una chiara uscita dal tradizionale sistema partitico novecentesco.
Ci hanno fregati (più o meno consapevolmente) anche in questo.
Ma pensiamo ora, brevemente, ai 100 fuochi da me invocati qui su HR e, recentemente, sul mio libretto Codice giallo: pensiamo a giornalisti che si impegnano seriamente nella cronaca politica e nell’analisi corretta di quanto avviene, anche se sotto la pressione di un governo che sta pensando a leggi liberticide; pensiamo a docenti che in barba alla scuola buona o cattiva si impegnano fortemente, nel loro plesso, nella loro aula, per costruire dei cittadini consapevoli; ai professionisti onesti che vogliono far crescere il paese; ai sanitari che non si risparmiamo per il bene dei pazienti, e non fanno “obiezioni”, e non si impinguano con l’intramoenia; ai poliziotti che si sacrificano, non a quelli che hanno massacrato Cucchi, che sono una minoranza; ai magistrati che non ci pensano minimamente a fare politica (i peggiori) ma a difendere le istituzioni; alle donne attaccate così ferocemente dal ministro Pillon, idem gli omosessuali; al mondo del sociale, le Ong, le cooperative, che si sfiancano da anni per aiutare i deboli, i migranti, i minori disperati e stanno andando incontro a una chiusura epocale; pensiamo anche alla dimensione economica, con le prime inquietanti decisioni del governo…
Eccoli i 100 fuochi, ed eccola la politica liquida (per carità, non voglio convocare Bauman!). Mi pare che fare politica oggi non sia più iscriversi a un partito, andare alle assemblee e votare la cordata meno indecente sperando che poi, di mediazione in mediazione, di compromesso in compromesso, le necessarie politiche che ci hanno convinti, come elettori, siano tutte stravolte.
Mi pare che oggi fare politica sia essere politica. Io voglio “essere politica”, nelle mie competenze (non tanto “con” le mie competenze), nella mia quotidianità, nelle mie relazioni. Io sono politica. E porto la politica – e quindi me stesso – nell’agone della sintesi democratica, che è la vita stessa, il suo divenire, il suo farsi comunità, il suo farsi “politiche” (nel senso di policies). Sì, certo, poi i 100 fuochi dovranno trovare delle sintesi attorno a dei progetti, e questi progetti possono avere la somiglianza ai partiti, nel momento in cui occorre competere, nella contrapposizione democratiche di visioni e linguaggi e destini e valori, con partiti come organizzatori di consenso nel momento elettorale (sì, un po’ come in America…) e con caucus in cui i leader dei 100 fuochi si confrontano, si aggregano o dividono, chiudono la sintesi, fanno la loro proposta. Qui c’è una fortissima elaborazione di idee, una giusta e opportuna partecipazione e, soprattutto, il calo immediato di questo odioso climax contrapposto e identitario. Perché non si tratterebbe più di essere di una data parte, contrapposta a un’altra, ma semplicemente di aderire, quella volta, a un certo programma, salvo cambiare la volta dopo in ragione del mutare storico.
Ripensiamo la politica, ripensiamoci come politica. E morto il PD ce ne faremo una ragione, se solo i 100 fuochi si accenderanno.