Abbiamo più volte indicato il lessico stantìo del Novecento, la sua inadeguatezza oggi, nel Terzo millennio, e come questo abbia segnato la crisi della sinistra e il prepotente sviluppo dell’onda nera populista (e non solo in Italia, com’è evidente).
Uno dei concetti cardine – finora non trattato – è quello di ‘popolo’.
Popolo, nel linguaggio ordinario, è
il complesso degli individui di uno stesso paese che, avendo origine, lingua, tradizioni religiose e culturali, istituti, leggi e ordinamenti comuni, sono costituiti in collettività etnica e nazionale, o formano comunque una nazione, indipendentemente dal fatto che l’unità e l’indipendenza politica siano state realizzate. Nella terminologia giuridica, il complesso degli individui cui sono attribuiti i diritti di cittadinanza nello stato.
(Enciclopedia Treccani).
Questa definizione è con tutta evidenza obsoleta, inattuale, priva ormai di qualunque utilità operativa.
Lingua: nel 1861 – secondo Tullio de Mauro (Storia linguistica dell’Italia unita, 1970) – solo il 2,5% della popolazione italiana parlava la lingua derivata dal fiorentino, divenuta lingua ufficiale anche per il contributo di intellettuali dell’epoca (Manzoni in primis); vari fattori hanno favorito l’espandersi della conoscenza dell’italiano sopra i preesistenti dialetti, ma basta girare un po’ l’Italia per sapere che in realtà italiano (come lingua formale) e dialetti (come lingua colloquiale) coesistono, con forza e orgoglio, contribuendo a mantenere le differenze culturali fra italiani. Notate che ci sono dialetti locali in tutti i paesi europei, ma con un significato, un’estensione e un uso assai differente rispetto all’Italia. E oggi comunque, pur parlando, dalla Valle d’Aosta a Lampedusa, una sorta di lingua comune, è venuta a mancare la comprensione del senso della lingua, ciò che oggi chiamiamo ‘analfabetismo funzionale’, che rende di fatto diversi gli italiani l’uno all’altro.

Se poi osserviamo le “tradizioni religiose e culturali” emergono non solo le tradizionali differenze di campanile, comunque persistenti, ma rilevanti differenze sociali: il Nord e il Sud sono profondamente differenti come visione della vita, ruolo della famiglia, relazioni amicali… Giovani e anziani, uomini e donne, ceti sociali – ovviamente – e gruppi e consorterie… L’aumento della complessità sociale di cui spesso parliamo qui su HR è un potente fattore di differenziazione a livelli sempre più particolaristici. La globalizzazione e le tecnologie 2.0 hanno fatto il resto.
Ma poiché tutti i processi sociali si realizzano attraverso il linguaggio, la distanza crescente fra sintassi (la conoscenza delle parole) e semantica (la consapevolezza del senso del discorso – e non affrontiamo qui il più pertinente tema della pragmatica) portano a una discrasia fra complessità come omologazione entro apparenti differenze, e complessità come innovazione e produzione di senso.

La conseguenza è una crescente anomia sociale espressa in termini di fratture: generazionali, di genere, territoriali, professionali… e naturalmente “culturali” (in senso sapienziale) e politiche.
Restano gli “istituti, leggi e ordinamenti comuni”, ma non solo queste sono sovrastrutture che agiscono solo e in quanto preesiste una cultura condivisa, ma vediamo oggi come l’onda populista (conseguenza – come cercherò di dire – di questo processo involutivo) rende instabili, interpretabili, addirittura contestabili tutti gli Istituti ritenuti, per decenni, pilastri immutabili di garanzia comune.
La situazione attuale, pertanto, mostra la frammentazione e assieme l’omologazione, della società. La scomparsa dei legami forti, la caduta dell’istruzione di base, il particolarismo edonistico e la devastazione della riduzione comunicativa dei social, ci frammentano nei fatti in particelle sociali contrapposte ma identiche: i giovani contrapposti in gang si odiano vicendevolmente ma sono identici; i tifosi ultrà; i vegani fanatici e i cacciatori; i renziani e gli anti-renziani… l’analisi sintattica mostra differenziazione, esclusione reciproca, sentimenti profondi di ostilità, ma l’analisi semantica (e, ripeto, non accenno a quella pragmatica per non complicare il discorso) è straordinariamente simile.
L’omologazione sintattica è il prodotto della globalizzazione, che ha bisogno di tale omologazione (per cui siamo ottimi consumatori) disinteressandosi del moltiplicarsi della frammentazione esclusiva come cittadini. È come – se mi passate l’immagine – se dopo avere tutti guardato lo stesso Sanremo e avere mangiato lo stesso hamburger da McDonald’s, ci accapigliassimo a sprangate una mezz’oretta per strada per poi tornare soddisfatti nelle identiche case a compiere gli stessi gesti.
È qui che si consuma la frattura più drammatica, quella fra popolo ed élite. Un popolo che non esiste se non in quanto frammentato, che consuma la sua più grande esclusione verso quel corpo interno – e allo stesso momento separato – rappresentato dalle persone colte, informate, curiose, che leggono, che si informano, che viaggiano, che sanno argomentare, che sanno immaginare… (rimando all’ottimo post di Antonio Preiti).
Qui allora possiamo immaginare queste molteplici e differenti distanze, che collocano le parole delle élite in province di significato troppo distanti da quelle del popolo omologato (parole = valori, orizzonti, motivazioni, idee e ideali, costruzioni di senso…).

L’intellettuale organico di cui abbiamo parlato la scorsa puntata, quindi, su chi dovrebbe plasmare la propria “organicità”? Quale popolo, se ci sono cento frammenti di popolo reciprocamente esclusivi? Con quali parole, se il gap pare incolmabile? Ma, soprattutto: per quali fini, verso quali obiettivi condivisibili?
Oggi non esiste un popolo per le élite.
Come potrebbe esistere un’élite per il popolo?
[Continua]