Revote for Brexit? L’inconsistenza del voto popolare

Il 23 giugno 2016 il referendum in GB sancì la vittoria del Leave.

Il pentimento, come noto, iniziò quasi subito, e le conseguenze negative per l’economia di Sua Maestà pure. Se si rivotasse oggi probabilmente vincerebbe il Remain ma, se osservate il grafico sottostante, non sembra che ci sia una caduta verticale dei pro-Brexit: 

Fonte: https://whatukthinks.org/eu/questions/if-a-second-eu-referendum-were-held-today-how-would-you-vote/

Come avrete letto incomincia a serpeggiare l’idea di un secondo referendum che potrebbe sistemare le cose, considerando che attualmente i brexiter, pur sempre forti, non sembrano in condizione di rivincere. May è contraria e Corbin favorevole, ma un revote a cosa porterebbe? Una vittoria, ancora una volta, del leave stabilirebbe in forma granitica la non praticabilità di altre opzioni, mentre una possibile vittoria del remain risolverebbe in un colpo solo i complicati problemi che la signora May deve fronteggiare per cercare la via d’uscita dall’Europa (QUI un riepilogo della complicata matassa), sia pure con una politica opposta a quella dei conservatori.

Ma la riflessione che mi interessa di più sottolineare è l’implicita dichiarazione di fallacia della volontà popolare. Chiedere di rivotare significa dichiarare che il voto precedente si è basato su informazioni incomplete se non false; su strumentalizzazioni dell’opinione pubblica; su sentimenti umorali e poco logici. In una parola rivotare (cosa che converrebbe a tutti, sudditi di Sua Maestà per primi) significa dichiarare che non esiste una volontà popolare

La volontà popolare è, semplicemente:

  • qui ed ora;
  • di coloro che la esprimono;
  • sulla base delle informazioni (generalmente parziali e distorte) possedute;
  • per come rielaborate sull’onda di appartenenze;
  • e alla luce di umori irrazionali cangianti.

Su ciascuno di questi punti vi sono biblioteche di testi sociologici e psicologici e, più modestamente, alcune decine di post su questo blog.

I referendum italiani sul nucleare si tennero (casualmente) poco dopo i tragici incidenti di Chernobyl e di Fukushima; solo persone lucidissime e ben compenetrate tecnicamente col problema energetico potevano votare a favore; se si votasse nuovamente dopo tre inverni di freddo polare coi rubinetti del gas chiusi da Putin, forse l’esito sarebbe diverso. La pena di morte è rigettata da grandissima parte dell’opinione pubblica; ma chiedete ai parenti di vittime di gravi crimini e leggerete – senza sorpresa – risultati differenti. 

Noi tutti cambiamo idea non solo e non tanto perché siamo banderuole al vento, ma anche e soprattutto perché viviamo empaticamente il mondo circostante, e reagiamo più o meno simbioticamente con quanto accade e ci accade.

È assolutamente per questo che la democrazia rappresentativa occidentale delega a degli specialisti (i politici, supportati da tecnici) per prendere decisioni non sulla base di umori e di empatie, ma di logiche e programmi a lungo termine. Sì, lo so; non funziona neppure così e oggi, in Italia, abbiamo l’esempio palmare che non funziona: personale politico improvvisato e incompetente che fa dell’umoralità popolare la propria bandiera, il proprio credo, il proprio mandato. E questo è il grande vulnus della democrazia.

Come ho scritto in tempi non sospetti la politica è un mestiere, un mestiere serio, che presuppone un personale preparato, capace di circondarsi di tecnici competenti…

Vabbé…

Segnalo anche che fare rivotare è il contrario dell’approccio democratico: significa che chi è al potere non condivide il risultato “popolare”, intende vanificarlo, annullarlo, confidando sostanzialmente su nuovi umori, differenti mali di pancia… Se io fossi un brexiter sarei decisamente arrabbiato del fatto stesso che qualcuno ci stia pensando seriamente.

Poiché non è possibile separare gli umori (e le disinformazioni, e l’ignoranza, e le pigrizie e tutto il resto) dal voto popolare, il risultato è che – più o meno – sempre il voto è originato dall’umoralità: le recenti elezioni in Abruzzo e Sardegna lo dimostrano in maniera cristallina, così come lo ha dimostrato il voto referendario costituzionale del 4 dicembre 2016, dove la stragrande maggioranza degli elettori ha espresso la sua antipatia a Renzi, pochissimo conoscendo della natura dei quesiti oggetto di referendum. L’aporia fra decidere e partecipare è nota da tempo, ma la crescente segmentazione sociale e la perdita di legami forti (inclusi quelli ideologici) rende ancora più fragile e incerta la relazione. Decidere riguarda l’oggi e il futuro, riguarda l’io e il noi, riguarda chi da tale decisione guadagnerà e chi perderà… Riguarda (o meglio: dovrebbe riguardare) un’analisi terza, equilibrata, argomentata; mentre la partecipazione ha sempre a che fare con l’oggi, con l’io, col mio guadagno e la mia perdita (per come io le ho comprese). La frattura è insanabile.