Is political democracy, as it exists today, a viable form of government for the industrialized countries of Europe, North America, and Asia? (Trilateral Commission, The Crisis of Democracy, p. 2)
Nadia Urbinati mi ha indotto a leggere un vecchio saggio dal titolo La crisi della Democrazia (che potete scaricare integralmente QUI) prodotto 42 anni fa da un think tank noto come Commissione Trilaterale e scritto da tre autorevolissimi autori: Michel Crozier, uno dei più noti sociologi europei, Samuel Huntington, politologo americano già noto ai lettori di HR per il suo Scontro di civiltà di cui abbiamo discusso tempo fa e Joji Watanuki, sociologo nippo-americano. Il testo, oltre a uno sguardo prospettico pessimista sul futuro delle democrazie che si rivela da un lato (fortunatamente) infondato e dall’altro (sfortunatamente) superato da realtà più complesse e all’epoca non prevedibili, propone un quesito che invece è attualissimo e – per quanto mi riguarda – suffragato dallo sviluppo più recente e con molteplici esempi di realtà all’epoca inimmaginabili. Tolta quindi la parte descrittiva datata e quella previsionale non più adeguata, resta un idea di fondo che credo drammaticamente attuale e rilevante e che – qualunque sia la risposta che intendete dare – dobbiamo mettere nell’agenda delle nostre riflessioni.
Secondo gli autori di quest’opera le sfide alla democrazia sono di tre diversi tipi:
- elementi che insorgono da ambienti e contesti esterni e non sono determinati dal governo: guerre, crisi economiche o comunque fattori che costringono un governo democratico a reagire con esiti diversi a seconda della storia, cultura, livello di sviluppo eccetera;
- la struttura sociale e i trend di sviluppo, e in particolare la presenza di fattori divisivi (concentrazione o meno di potere economico e culturale; gruppi etnici o regionali contrapposti; …); in questa seconda sfida un posto rilevante l’occupa la presenza di gruppi organizzati e intellettuali che si oppongono alla democrazia in quanto “serva del capitalismo” trovando risorse e sviluppo nella scuola di massa e nei mass media e dalla progressiva sostituzione del lavoro manuale con quello intellettuale. La serietà di questa sfida si alimenta dall’evoluzione e diversificazione dei valori sociali che puntano all’edonismo e all’auto-gratificazione producendo sfiducia nelle istituzioni e scetticismo;
- infine la terza sfida è propriamente inerente il funzionamento democratico e la sua capacità di dare espressione a forze che, lasciate a loro stesse, potrebbero minarne la stabilità; questo fattore è differente nelle varie società:
in anni recenti le attività del processo democratico sembrano veramente aver generato un blocco dei mezzi tradizionali di controllo sociale, una delegittimazione della politica e di altre forme di autorità e un sovraccarico di domanda di rappresentanza che eccede la sua capacità di risposta (Trilateral Commission, The Crisis of Democracy, p. 8, trad. mia).
Ricordo i lettori che questo testo è del 1973; l’URSS era una temibile potenza militare, gli Stati Uniti erano ancora impelagati nella guerra del Vietnam, la Cina era in piena Rivoluzione Culturale e semi-inaccessibile agli occidentali, la Gran Bretagna aveva appena aderito all’Unione Europea e in Spagna governava ancora Franco. 15-20 anni dopo successe un finimondo e il pianeta è diventato veramente tutta un’altra cosa (ne ho parlato QUI). Ciò premesso le tre sfide della Commissione Trilaterale sono diventate – attualizzate – più rilevanti ed evidenti che mai:
- proliferare di guerre con conseguenze-domino devastanti (per esempio la sciagurata guerra del Golfo di Bush con il conseguente sfaldamento del Medio Oriente); rimescolamento delle alleanze internazionali (i paesi satellite dell’ex Unione Sovietica nella NATO, la Cina nel WTO…); la crisi economico-finanziaria…
- il crescere in tutta l’Europa di localismi centripeti e di derive lepeniste e naziste, tanto per rimanere vicini a noi; i conflitti sociali più o meno espliciti, nel nostro Paese, fra Nord e Sud, giovani e anziani, autoctoni e immigrati; il rumoroso ruolo di gruppi anti-sistema vocati alla cristallizzazione del conflitto (dai parlamentari Lega e M5S agli extra parlamentari black blok);
- e la terza sfida, la più evidente, con un avvitamento edonista e consumista da un lato e la sempre più ampia diversificazione dei valori di riferimento fondativi di una società, basti pensare ai costumi sessuali e alle credenze religiose e alle mille e mille istanze, tutte legittime e tutte desiderose di proporre proprie istanze.
Gli autori sottolineano poi che le sfide attuali sono le conseguenze dei successi dei 25 anni post-bellici: la grande scalata alla classe media ha incrementato aspirazioni e aspettative causando reazioni intense quando non si sono trasformate in realtà; l’ampliata partecipazione politica ha incrementato la domanda di rappresentanza; il benessere ha sviluppato stili di vita e nuovi valori sociali. Questi fattori hanno creato sfiducia nel funzionamento delle istituzioni senza con ciò immaginare alternative, neppure da parte dei gruppi più radicali (p. 158-159):
né la chiesa, né lo stato né la classe d’appartenenza ottengono oggi fedeltà […] Tutti e tre questi déi hanno fallito; noi osserviamo la dissipazione della religione, l’umiliazione del nazionalismo e il declino – se non proprio la morte – dell’ideologia di classe (pp. 159-160).
Gli obiettivi di una democrazia non possono essere imposti, devono essere condivisi attraverso una percezione collettiva di miglioramento delle condizioni:
Nella situazione attuale il meccanismo democratico continua a funzionare ma la capacità degli individui che agiscono tale meccanismo per produrre decisioni tende a deteriorarsi. Senza finalità condivise non ci sono le basi per stabilire delle priorità accettate, e senza priorità mancano le basi per distinguere fra interessi individuali e richieste sociali. Obiettivi confliggenti e interessi di parte collassano uno sull’altro con governo, parlamento, apparato pubblico privi dei criteri per discriminare fra loro. Il sistema si trasforma in una democrazia anomica in cui i politici diventano semplicemente parte di un’arena per raccogliere asserti conflittuali, piuttosto che un processo per la costruzione di orizzonti condivisi (pp. 160-161).
Il volume conclude poi (pp. 161- 168) sottolineando le principali disfunzioni della democrazia:
- la delegittimazione dell’Autorità;
- il sovraccarico di richieste di rappresentanza;
- la frammentazione degli interessi;
- la visione priva di prospettive [parochialism] in politica estera.
Naturalmente queste disfunzioni si manifestano in maniera differente nelle varie sub-aree (America, Europa, Asia) e nei diversi paesi.
Insomma, per fare una sintesi, vari processi hanno condotto le democrazie moderne a un eccesso di partecipazione a causa del crescente pluralismo sociale o – per utilizzare un concetto frequente qui su HR – per l’aumentata complessità sociale. Ciò minerebbe – secondo la Commissione Trilaterale – la capacità decisionale di un paese. Ma come fa notare Urbinati nel suo articolo deliberare (discutere, litigare, mediare, condividere per poi decidere, anche se un po’ sfiniti) è più che votare:
Una società civile vibrante e non apatica è il segno non di una crisi di governabilità ma di una forte legittimità del sistema perché la decisione, ottenuta comunque a maggioranza, viene percepita da tutti non come un esito divisivo di una parte contro l’altra (Urbinati, art. cit.).
Nell’Europa dagli anni settanta in poi la visione deliberativa è stata centrale nel costruire un’idea di Unione sociale e solidale, ma poi
Il suo declino, che la crisi economica ha accelerato, corrisponde in questi anni recenti a un’impennata della volontà decisionale degli esecutivi sia nazionali che comunitari, e un desiderio di allentare i lacci imposti dalla deliberazione, parlamentare e sociale, e di alleggerire l’impegno dei governi nelle politiche sociali. A livello europeo, questo cambio di passo è stato impresso dalla pratica dei trattati inter-governativi che hanno depresso la consuetudine comunitaria e, nello stesso tempo, esaltato il ruolo degli esecutivi degli stati (Urbinati).
Di questo, proprio di questo, abbiamo scritto non molto tempo fa riportando i risultati di un’indagine da noi svolta presso un ampio gruppo di sociologi che hanno riflettuto, fra l’altro, sulla situazione europea.
Naturalmente in casi come questo non ci può essere conclusione se non almeno in parte ideologica: i sostenitori della partecipazione deliberativa sosterranno una tesi diversa da quella dei pragmatici decisionisti. Qui non mi schiero proponendo, come conclusione, un piccolo elenco di elementi nostrani che ci aiutano a rendere attuale le conclusione della Triplice, almeno nel senso che si tratta di problemi reali, che influenzano i meccanismi della nostra democrazia e sui quali dobbiamo perlomeno riflettere:
- oltre ai molteplici elementi esogeni menzionati in apertura di articolo, che non vale nemmeno la pena riepilogare, è difficile non convenire sull’enorme frammentazione della nostra società (la seconda sfida alla democrazia), la sua contrapposizione in gruppi locali, di interesse, generazionali e così via;
- strategie deliberative sono sostenute da una minoranza del Paese (per esempio dal M5S) mentre la realtà marcia spedita verso processi decisionali di vertice (leaderismo politico, fine della concertazione fra parti sociali…);
- le conseguenze della frammentazione e del particolarismo così ben segnalati dalla Triplice sono piuttosto visibili in Italia, e la maggior parte degli osservatori ne denuncia da anni gli effetti negativi; è comunque evidente che l’eccesso opposto può condurre a un deficit di democrazia che occorre tener presente;
- è evidente che a proposito di specificità locali (segnalate anche dalla Triplice) ogni paese va studiato a se stante; in Cina è piuttosto difficile immaginare, almeno oggi, uno sviluppo verso una democrazia deliberativa, mentre è chiaro il suo successo all’interno di un ordinamento oligarchico-verticistico; l’opposto negli Stati Uniti. L’Italia però non è né la Cina né gli USA e mi pare che stenti, in questa cosiddetta Seconda Repubblica, a trovare un equilibrio fra partecipazione e decisione. La prima viene troppo spesso confusa con pratiche consociative (quando va bene) mentre la seconda viene con troppa faciloneria etichettata come autoritarismo.
Il problema italiano, per concludere, mi sembra segnato da una storia recente che ha fatto imboccare al Paese un vicolo cieco dove l’alternativa al decisionismo sembra essere improntato alla commistione familistica e all’inazione, mentre l’alternativa alla deliberazione anarchica sembra condurre necessariamente alla burbanza e all’ ipersemplificazione dei problemi. Il fatto è che per concorrere a una partecipazione deliberativa occorre cultura diffusa, competenze disponibili, capacità dialettica e non conflittuale, tutti elementi assenti da noi. È evidente che lo spazio rimasto è tutto decisionista.
Risorse su HR:
Molti articoli di Hic Rhodus – oltre a quelli già citati – hanno trattato argomenti affini; per non stilare qui una noiosa bibliografia autoreferenziale invitiamo i lettori interessati a digitare queste stringhe sul nostro motore di ricerca, selezionando poi gli articoli più pertinenti:
- populismo;
- democrazia;
- leaderismo;
- complessità.