La potenza dei pregiudizi

Premessa su di noi e la nostra scrittura 

(i lettori affezionati possono saltare questa parte)

Come mi pare di avere scritto in altre occasioni, una delle condizioni fondamentali per fare i blogger, e sopravvivere, è quella di non leggere i commenti di ritorno. Per noi di HR fanno eccezione quelli che compaiono sul blog, generalmente scritti da un pubblico ormai consolidato e affine culturalmente, quelli sulla fanpage Facebook (per dovere, ovvio) e una parte almeno di quelli che compaio su uno, massimo due gruppi Facebook ai quali noi redattori siamo affezionati, o più coinvolti. Dopo di che, quando segnaliamo i nostri testi su svariati altri gruppi, o su Twitter, disattiviamo le notifiche per evitare, nel modo più assoluto, di lasciarci innervosire da commenti fuori luogo, insulti, gente che ci incalza perché ha totalmente equivocato ciò che ha letto ma pretende una risposta, e così via. Ne va della nostra salute mentale, capite? Questo atteggiamento fa il paio con quello già dichiarato, e molto elitario, sì, di non pretendere di scrivere per chiunque. Noi non facciamo divulgazione scientifica, col vincolo di essere chiari ed esaurienti per un pubblico di cultura media; noi non facciamo neppure politica con la voglia di far cambiare idea al prossimo, e quindi con una sorta di obbligo morale di insistere, trovare le parole giuste, quelle incontrovertibili (e quindi giù di repliche e controrepliche, fino allo sfinimento).

Molto più semplicemente il nostro fare politica (perché per noi è esattamente questo che facciamo) consiste nel porgere argomenti, ben discussi e verificati, sperando che inducano modifiche nel pensiero e nei comportamenti altrui (esattamente questo è lo scopo del linguaggio, non altri). Ce la facciamo? Ne siamo felici e orgogliosi. Non ce la facciamo? Pazienza, andiamo avanti e speriamo che i prossimi incontri coi lettori siano più efficaci. Questa nostra volontà (snob finché vi pare, alla fin fine questo è il nostro blog e questa è la nostra linea editoriale) era scritto nel Manifesto di apertura di questa nostra esperienza (gennaio 2014) ed è stato più volte ribadito, non ultimo un paio di settimane fa, quando abbiamo esplicitamente affermato:

noi non scriviamo per tutti. Ne siamo consapevoli. La nostra scelta non riguarda la divulgazione – un’attività encomiabile – ma l’approfondimento e l’argomentazione con chi ci sta; con chi è in grado sia per strumenti culturali che per predisposizione morale, se così possiamo dire. Noi, per capirsi, non parliamo ai populisti per far loro capire che si sbagliano; noi non parliamo ai no vax per mostrare i dati che confermano i loro grossolani errori; noi non parliamo a chi ragiona per slogan (per incultura, per difetto intellettivo, per qualunque ragione) semplicemente perché lo consideriamo inutile. Sì, certo, è molto snob ed elitario. Abbiamo fatto un po’ di conti arrivando alla conclusione che abbiamo poco tempo, abbiamo pochissima pazienza, e Wilde aveva ragioni da vendere: parlare a chi non ti vuole ascoltare è inutile, sia che costoro non ti ascoltino per incapacità che per partito preso.

La potremmo chiudere qui, naturalmente, se non fosse che alcune critiche ricevute in questi giorni (in particolare sul post di ieri relativo alle politiche svedesi in merito al coronavirus) mi sono sembrate utili per un discorso molto generale. Non quindi per rispondere a quelle critiche (un po’ l’ho fatto con gli interessati, un po’ me ne infischio, come abbastanza chiaramente detto in queste prime righe) ma perché il tema di fondo che posso trattare vale per tutti, vale come insegnamento generale, a prescindere da me, da voi, da Hic Rhodus. È il tema del pregiudizio come appresso trattato.

Imbevuti di pregiudizi 

(questa parte è tecnica e pedante; se siete già competenti sulla natura dei pregiudizi potete saltare anche questa)

Partiamo dalla facile constatazione che tutti, nessuno escluso, siamo imbevuti di pregiudizi che, copiando dal vocabolario Treccani, sono

Idee, opinioni concepite sulla base di convinzioni personali e prevenzioni generali, senza una conoscenza diretta dei fatti, delle persone, delle cose, tale da condizionare fortemente la valutazione, e da indurre quindi in errore.

Il pre-giudizio (col trattino si capisce meglio il concetto) si sovrappone alla nostra esperienza diretta, quotidiana, e ne costruisce un’idea (ne elabora un giudizio) che dipende principalmente da qualcos’altro, qualcosa di preesistente nella nostra mente. Poiché pensiamo che gli abitanti del Kissadovestan sono bugiardi e falsi, quando ne incontriamo uno partiamo dall’idea che anche lui sia bugiardo e falso, applicando il famoso sillogismo aristotelico; per cambiare opinione dobbiamo frequentare a lungo quell’esemplare di kissadovestano, e vederlo compiere ripetuti atti di sincerità e onestà, per potere semmai approdare all’idea che “sì, è un kissadovestano, ma buono” (quindi: il nostro pregiudizio non viene scalfito, ma semplicemente sospeso in quel caso specifico).

Quei nostri pre-giudizi come sono nati? Nei modi più svariati: vecchie esperienze, oppure elaborazioni mancate di esperienze; incontri con persone, e le diverse capacità di inserire quegli incontri nei loro rispettivi contesti; letture, viaggi… e come si attagliano agli schemi mentali (Neisser) già posseduti. L’educazione, l’ambiente domestico, gli amici. Le nostre debolezze personologiche. Insomma, alla fine noi abbiamo una serie di questi schemi mentali che si organizzano e strutturano e che, da un dato momento in poi, mutano con grande difficoltà, perché rimodulare un determinato schema mentale vuole dire intaccarne molti altri collegati, e in definitiva mettere in discussione se stessi. Un esercizio, quest’ultimo, che non piace quasi a nessuno. Se quindi – per qualunque ragione – sono omofobo, scardinare quel pregiudizio è faticoso; non basta indicarmi brave persone omosessuali; serve a poco mostrarmi dati che indicano che delinquono poco, che non c’è collegamento con la pedofilia, che non traviano i bimbi…; gli schemi mentali di genere, sulla sessualità, sui ruoli sociali, sulla virilità etc. di una persona omofoba, semplicemente, non possono cambiare in seguito a una lettura, o a una conversazione, e occorre una certa esposizione a idee diverse affinché sorgano dubbi e possa prendere posto uno schema mentale differente.

Quanto sopra vale, in generale, per ciascuno di noi e voi. Poi, sì, qualcuno è più resistente al cambiamento e qualcuno meno, su certi argomenti almeno. Ciò dipende da alcuni fattori quali l’intelligenza, il carattere e la natura e qualità di quelle esperienze che hanno costituito i nostri schemi mentali. Più l’eventuale cambiamento del pregiudizio intacca elementi profondi del carattere, meno l’individuo avrà voglia di addentrarsi in un’avventura intellettuale che finisce per metterlo in discussione come individuo. E, evidentemente, meno è intelligente e colto e minori strumenti dialettici ha a disposizione, né si può semplicemente indicarglieli.

Strategie dell’individuo con pre-giudizi

Alla luce di quanto scritto poco sopra, non basta un testo (per esempio un articolo su questo blog) per far cambiare idea a un portatore di pregiudizi avversi, il quale potrà sempre adottare una o più di queste strategie:

Pinco Pallo ha affermato il contrario. C’è sempre un Pinco Pallo che ha affermato il contrario di qualunque cosa; e quasi sempre c’è perfino un Pinco Pallo abbastanza credibile, accreditato. Se io – per esempio – scrivo che la Svezia non è un modello da imitare per quanto riguarda le politiche di contrasto del coronavirus, ecco che alcuni bravi lettori mi citano Mike Ryan, capo del Programma di emergenze sanitarie dell’Oms, che avrebbe invece lodato il modello svedese (alcune delle critiche hanno effettivamente riguardato questo). Questi critici sanno di Mike Ryan quello che l’agenzia di stampa, o il quotidiano, dice loro, semmai dietro al titolo “È l’OMS a dirlo”… Allora, in questo caso specifico, qualche elemento di verità differente da ciò che i titoli di giornali italiani hanno lasciato intendere sono riportati qui di seguito (potete saltare, ma si evince che né l’OMS né il sig. Ryan hanno detto quello che gli si è voluto far dire):

Ciò che realmente ha detto Mike Ryan è riportato nel trascritto integrale della conferenza che recita, testualmente: “Ciò che la Svezia ha fatto diversamente è che si basa molto sulla sua relazione con la sua cittadinanza e sulla capacità e la volontà dei cittadini di implementare il distanziamento fisico e di autoregolarsi, se si desidera utilizzare quella parola. In questo senso, hanno implementato le politiche pubbliche attraverso quella partnership con la popolazione.” Questa frase è inserita in un contesto più ampio che potete leggere da soli, in cui i) nega la “percezione che la Svezia non abbia messo in atto misure di controllo e abbia appena permesso alla malattia di diffondersi.”; ii) asserisce che “hanno aumentato la loro capacità di fare terapia intensiva in modo abbastanza significativo e il loro sistema sanitario è sempre rimasto nella sua capacità di rispondere al numero di casi che hanno ho vissuto”; iii) rammenta la tragedia degli anziani svedesi ma la stempera dicendo che questo problema è presente anche altrove in Europa arrivando a dire che, effettivamente, “è necessario fare di più per proteggere e arrestare tali cluster e prevenire la diffusione della malattia in tali contesti.”; iv) infine – con esplicito riferimento a un prossimo ritorno alla normalità – afferma: “penso che in molti modi la Svezia rappresenti un modello futuro se desideriamo tornare in una società in cui non abbiamo blocchi [lockdown], quindi la società potrebbe dover adattarsi per un periodo di tempo medio o potenzialmente più lungo, in cui le nostre relazioni fisiche e sociali tra loro dovranno essere modulate dalla presenza del virus.”

Come si vede non è vero che Ryan lodi il modello svedese, se non come capacità di collaborazione fra governo e popolazione.

Se il Pinco Pallo è quindi una persona accreditata, come lo è indubbiamente Mike Ryan, la sua opinione viene utilizzata per come riportata negli articoli dei giornali, o addirittura solo nei loro titoli, che fanno scalpore, sono assertivi e – questo ci interessa – affondano facilmente negli schemi mentali di chi possiede già pregiudizi in merito. Direte: ma non è mica che per ogni riga che vogliamo commentare dobbiamo fare l’esegesi di ogni e qualunque cosa detta e scritta? In questo modo non ne usciremmo mai!

Giusto. Ma neppure prendere il primo titolo che vi fa comodo, non vi pare?

Domanda: perché se la Svezia – con il suo lockdown “morbido” – è così tanto un modello da imitare, non l’hanno imitata tutti? O molti? La teoria del laissez faire per raggiungere l’immunità di gregge era anche dell’UK di Boris Johnson, che ha dovuto amaramente ricredersi; era dell’America di Trump, quello che ha consigliato ai suoi concittadini di bere disinfettante, e ora il virus ha raggiunto, da loro, proporzioni mostruose. Ed era di Putin dove le notizie sono sostanzialmente nascoste ma pare sia un disastro anche là… 

Insomma: una tipica strategia del portatore di pregiudizi è che non esercita senso critico; poiché non mi va bene in lockdown, e poiché sono critico verso il governo Conte che me l’ha imposto, allora prendo un caso cha appare contrario, non ne noto la singolarità, non mi chiedo come ciò sia possibile, non vado a meglio informarmi, ma lo uso come una clava linguistica, come un caso esemplare; di più: come un’evidenza concreta, tanto più se detta da una persona autorevole della quale ignoravo l’esistenza fino a un minuto prima.

I dati, poi, non significano nulla se non vanno nel senso gradito. Nell’articolo sulla Svezia (che – insisto – menziono solo in quanto caso di studio interessante) ho riportato molti dati, di fonte autorevole, che indicano con una certa precisione come la Svezia sia fra le nazioni messe peggio per quanto riguarda la mortalità da coronavirus. Volendo, quindi, abbiamo su un piatto della bilancia i dati, e sull’altro piatto un tale che sembra essere credibile, le cui dichiarazioni sono filtrate da come il giornalista le ha lette sull’agenzia di stampa che le ha tradotte da una primigenia agenzia straniera… Ma poiché a noi il governo Conte sta antipatico, e il lockdown ci ha stufati, allora dei dati non ci importa nulla. A meno che, ovviamente, non confortino le nostre tesi.

Uscire dai pregiudizi

Affermo senza tema di smentita che i pregiudizi sono confortevoli e – sissignore – anche necessari. Se invece di pregiudizi li chiamate “schemi mentali” (no, in realtà non sono sinonimi) capirete il perché; non possiamo, ogni giorno, su qualunque questione, fare lunghi e complessi ragionamenti, risalendo ad Adamo ed Eva, ragionando su ogni variante possibile, rompendoci la testa dubitando di ogni cosa… ci saremmo estinti da un pezzo! Noi abbiamo bisogno di attingere, continuamente, dalle idee già maturate precedentemente, dai nostri schemi pregressi, dai nostri – appunto – pregiudizi. 

Però…

Però dipende dal contesto, dalla situazione, dagli interlocutori.

Con la mia vicina di casa può bastarmi un fugace “non ci sono più le mezze stagioni”, che sta a metà fra un “Buongiorno sora Cesira!” e un “Che fa di buono a pranzo, oggi?”. Non sto realmente parlando delle stagioni, non mi interessano le stagioni e non ho bisogno di definizioni meteorologiche più precise.

Se sono al supermercato e chiedo dov’è il reparto vegano, invece, non voglio essere indirizzato a un generico reparto orto-frutta; voglio un prodotto vegano che significa certe cose, e se tu addetto non lo sai e mi rispondi a vanvera perdi un cliente. Poca cosa, comunque.

Dopo la comunicazione generica del primo esempio, e quella strumentale del secondo, andiamo direttamente a una comunicazione specialistica, dove le parole hanno un senso, oltre che un significato: dire “la Svezia è un modello nella lotta contro il coronavirus”, in un contesto di comunicazione sanitaria, o politica, è una stupidaggine sesquipedale. Non si può dire; è insostenibile; i dati lo dimostrano; migliaia di scienziati e intellettuali svedesi lo dicono; la comparazione con i paesi confinanti lo testimoniano. Ma almeno, farsi venire il dubbio su chi sia e cos’abbia veramente detto Mike Ryan, questo spazio di dubbio, ce lo vogliamo concedere? E, una volta verificatolo, semmai in breve, semmai con incompletezze, ragionare col nostro magnifico cervello e vedere che i dati dicono un’altra cosa, tanto da suggerirci, quanto meno, una politica di prudenza che recita: nel dubbio taccio!, almeno questo, no?

Occorre dire, infine, che la solitudine ci rende inclini agli errori, ai pregiudizi, agli errori gravi. Lo dico per un finalino autocritico: ogni tanto (raramente, sia chiaro!) anch’io penso e scrivo delle castronerie che – ex post lo posso riconoscere con facilità – sono il prodotto dei miei pregiudizi che mi fanno leggere male i dati, mi fanno argomentare in maniera rozza; ma io fortunatamente non sono solo e, in questi casi, l’amico e collega Filippo Ottonieri mi bacchetta e mi fa tornare in me. Quindi, suggerimento finale: sottoponete a vaglio critico le vostre idee prima di renderle pubbliche, perché le stupidaggini, oltre a farvi fare una brutta figura personale (una cosa della quale, vi assicuro, me ne strafrego) produce senso – scorretto – nell’opinione pubblica. Moltiplica i pregiudizi, alimenta quella moneta cattiva che scaccia la buona. Voi semmai avete delle ottime intenzioni politiche, siete molto compresi nella missione comunicativa che vi siete assunti, ma se non state attenti otterrete l’effetto opposto

(In copertina, foto dell’Autore – nel senso di “scattata” dall’autore di questo articolo)