Le cose intorno a noi – 5 Un mondo di plastica e cemento

Una piccola serie personalissima di contributi nata a ridosso di una mia ricerca fotografica. Puntate precedenti:

Le cose intorno a noi: una premessa generale; siamo circondati da cose diventate feticci, e quindi strumenti di alienazione (15 gen 2020);

Le cose intorno a noi – 2: approfondimento del post precedente, la “cosificazione” del mondo; con mappa concettuale e appropriatissima clip dal film di Jarmush I morti non muoiono (12 feb 2020);

Le cose intorno a noi – 3 Il paesaggio: dalle cose intorno a noi all’ambiente. Distinzione fra ambiente e paesaggio (questo secondo è invenzione umana); il junkspace. Il brutto che dilaga è l’offesa estetica al paesaggio, coerente con l’inquinamento e le offese etiche all’ambiente (5 mar 2020).

Le cose intorno a noi – 4 Gli scheletri: gli oggetti diventano obsoleti, ma anche i sistemi di produzione; le nostre periferie sono piene di capannoni industriali abbandonati, cadenti, a volte ancora con le macchine, i torni e i ponteggini lasciati alla ruggine. Una documentazione fotografica (21 agosto 2020).

Una ricerca pubblicata su Nature (una sintesi commentata in italiano QUI) ci informa del fatto che in questo 2020 gli oggetti materiali costruiti dall’uomo hanno superato, in peso, tutti gli esseri viventi del pianeta, animali, piante e naturalmente la nostra specie. Una specie che ogni settimana produce oggetti e beni materiali per un peso pari alla totalità degli esseri umani; come se ogni settimana altri 8 miliardi di esseri umani si aggiungessero al pianeta, ma fatti di plastica, acciaio, cemento. Ancora: gli animali allevati per il nostro consumo (animali come oggetti di consumo) rappresentano il 96% della massa animale sulla terra, contro il rimanente misero 4% di specie selvagge.

Oggi sul pianeta esiste una massa di 8 miliardi di tonnellate di plastica, contro i 4 miliardi di tonnellate di peso animale; il doppio. E non mi sembra il caso di cavillare sui metodi utilizzati dagli autori di questo studio per fornire cifre che sono, evidentemente, frutto di stime che possono benissimo essere diversamente argomentate e calcolate ma che ci danno, con un’approssimazione già spaventosa, l’idea dell’aberrazione del modello di sviluppo della nostra specie. 

Lo studio fornisce altri dati inquietanti, per esempio quello sui rifiuti: se al peso degli oggetti aggiungiamo quello dei rifiuti dobbiamo sommare altri 100 miliardi di tonnellate, che sono sistemate da qualche parte, imbucate, accatastate, seppellite… (sul tema abbiamo scritto un post su HR, tempo fa).

Qui non farò l’ovvia tirata sull’inquinamento, i pesci soffocati dalla plastica o altre peraltro giuste osservazioni, ma una riflessione piccola piccola, a cavallo fra l’estetica e la riflessione filosofica sui modelli consumistici che ci hanno imbrigliato. Il tema è noto fin dall’antichità, quando la produzione in serie e i materiali plastici non erano neppure immaginati, e se ne trovano eco anche in molte religioni e filosofie classiche (alcuni riferimenti QUI) per arrivare poi a Marx, a Fromm, Adorno, Baudrillard e una quantità di intellettuali di nicchia che hanno scritto bellissimi libri letti da pochi studenti e ancor meno decisori pubblici. La critica agli oggetti, al possesso materiale delle cose, all’ossessione per l’accumulo, passa anche per moltissima letteratura: il Mazzarò di Verga, lo Scrooge di Dickens, il Čičicov di Gogol, il Kien di Canetti – solo per citare i primi a caso che mi sono venuti in mente – sono esempi di accumulatori, avari, collezionisti, smaniosi di possesso di oggetti, anche se nella forma “alta” dei libri, nel caso di Canetti, che alla fine sono, sotto un certo profilo, oggetti anch’essi.

Alzo gli occhi dal computer, nella veranda in cui mi trovo, e mi guardo attorno. Vetrinette stracolme di oggetti, suppellettili ovunque. Questo è un ricordo del nostro viaggio in Spagna, quello è un ricordo della zia Teresina, quell’altro è semplicemente bello, quell’altro ancora nessuno sa più cosa sia ma ormai è parte del paesaggio domestico e non si può toccare (qui Baudrillard aiuterebbe, se non scrivesse in modo infame), e così via, i sassi raccolti nei Pirenei assieme al piffero di Caccuri accanto ai cristalli di quando ci siamo sposati a fianco alla fotografia del bambino subito dietro a un cavallo infilato in una boccia di vetro e dimenticato lì, circondati da candele colorate e profumate, allietate da mazzi di fiori, illuminati da una lampada decò presa dal rigattiere, col paralume non originale perché ci si è rotto, con lì vicine due teste siciliane di ceramica…

Sì, casa mia è un museo, altri hanno case più spartane, o semplicemente più ordinate, ma anche tu, lettore consumerista che ti credi esente da questi accumuli parossistici, alza gli occhi da questo schermo: quanti libri, dischi, pipe o coltellini svizzeri hai, per puro gusto collezionistico? Quante serie di piatti e bicchieri, quanti rispetto all’uso e alle necessità concrete? Quante automobili in famiglia, quanti smartphone? Quante scarpe, borse da signora, cappelli o cravatte? Perché hai tante cravatte? Quanti diavolo di colli hai da ornare? 

Avete figli o nipoti? Quanti chili di mattoncini Lego possiedono, quante automobiline e bambole, soldatini, casette, pistole…? Anche i vostri figli e nipoti conservano i giochi in numerose casse accatastate ovunque?

E il frigorifero? Date un’occhiata: quante salse e salsine, tipi di burro, piatti pronti, intingoli e sughi avete?

Io credo, onestamente, che ci sia una follia in tutto questo. E – ripeto – non voglio parlare della predazione del pianeta per costruire questi oggetti, che diverranno obsoleti costringendoci (costringendoci?) a comperarne di nuovi, in un processo infinito. Non so se è il modello liberista che ci ha fatti diventare schiavi degli oggetti, o se è una componente costitutiva del nostro essere “umani”, questo impulso all’accaparramento che noi, poi, abbiamo perfezionato nel liberismo. Ma credo che la verità sia più vicina alla seconda ipotesi, abbiamo esempi antropologici come il potlatch  di certi nativi americani, storici come Mida e Creso in epoca classica, ben prima e ben al di là del liberismo. Il liberismo, semmai, è il perfezionamento raffinato e normato e omologante di questo impulso umano, ne è assieme giustificazione (non c’è scelta al fare così), descrizione (il mondo funziona così, punto e basta) e norma (dovete fare così!), che in un mondo globalizzato ci dona le fragole a gennaio e la mostarda al miele fabbricata in Francia, distribuita in Cina e da lì importata in Italia (è capitato a me).

Arriva Natale, il cui Sovrano, Dio e folletto è un personaggio con l’outfit della Coca Cola, che riempie il giorno della nascita del Salvatore (lo scrivo da laico, come sanno i miei lettori) di altri oggetti, altre cravatte, altre scatole di Lego, altri cibi per il nostro fegato, quella che era una giornata di intimità familiare (quand’ero bambino i regali – pochi – si facevano per l’Epifania, il giorno dei Re Magi che portano doni al Bambino). Altri oggetti. Per lo più inutili, ché anche i regali “utili” sono doppi o tripli o quadrupli di maglioni, sciarpe e borse che già abbiamo in abbondanza.

Sì, lo so: dobbiamo sostenere i consumi. Se non “consumiamo” l’economia va a rotoli ed è un male per tutti. Perché abbiamo costruito un’enorme trappola, e il nostro scopo principale è mantenerla in funzione, perché se proviamo a resisterle, o addirittura a sabotarla, il mondo ci crollerà addosso.

E come conclusione vi regalo la celebre strofa di Giovanni Lindo Ferretti, dal suo Morire, inserito sulla nota sequenza di Chaplin in Tempi moderni. Mi sembra molto più azzeccato delle mielose canzoni natalizie che ci ammorberanno da qui all’Epifania.

(Foto di copertina di Claudio Bezzi)