Colpa, destino e disincanto

Come dire? Il rovello macina nella mia mente, e proseguo la discussione iniziata qualche giorno fa con l’osservazione del male e della colpa del male (QUI), e proseguita con l’osservazione della ineluttabilità del destino sulla strada del male per chi vi è destinato (QUI). In realtà penso e spero di avere articolato meglio il pensiero che avevo, oltre queste frasi di riepilogo che effettivamente, messe così, rischiano di sembrare un po’ banali.

Questo terzo intervento potrebbe essere intitolato “Che fare?”, se non fosse una domanda stupida e un titolo troppo abusato. Se il male esiste in mille forme fra di noi (e in noi) e genera nuovo male, nuovi destini condannati a soffrire e a generare nuove sofferenze, quale atteggiamento dovremmo assumere, come persone? Condanna? Pietà? Disincanto?

La condanna – e riprendo qui dal secondo intervento – ha a che fare col concetto di responsabilità. Vale a dire: posso anche conoscere le sofferenze che hai subìto, collegarle alla personalità malvagia che hai sviluppato, e quindi considerare questa un’attenuante (e tutto questo esiste nei codici delle società occidentali); ma alla fine riconosco senza alcun dubbio che tu, individuo che hai compiuto il male, sei il responsabile finale, e come responsabile applico la condanna prevista dalle leggi (al netto delle attenuanti, appunto). La condanna dei rei è ovviamente un potente deterrente al dilagare del male. La nostra società pretende di non essere una giungla dove vige la legge del più forte: non puoi rubare, uccidere, stuprare, sopraffare, ridurre in schiavitù, distruggere beni pubblici o privati, eccetera. La punizione di queste colpe viene applicata, con successi alterni, sin da tempi antichi, e questo è un indicatore piuttosto chiaro che la società non funziona se non viene protetta dai vili. Da Hammurabi in poi, non è la pietà verso i deboli che corre loro in soccorso con le leggi, ma la constatazione che il povero e debole fornaio deve continuare a fare il pane per tutta la città, e se il prepotente lo minaccia, lo deruba o lo uccide, neanche il Re potrà avere la sua baguette.

Le leggi sono utilitaristiche, e hanno valore non in quanto proteggono i deboli, ma in quanto proteggono la società dai vili.

La pietà entra in gioco solo come conseguenza di un Ente superiore che la insegna per sue finalità. L’esempio classico è il cristianesimo, che impone ai suoi adepti che l’altro è un fratello da amare. Gesù ha insegnato questo, e poiché lui è Dio, è Dio che lo vuole. Non voglio seguire in maniera esasperata Nietzsche, che non è più nemmeno di moda, ma onestamente a me questa pietà sembra un pochino ributtante. Nietzsche dice che pietà e compassione (e la conseguente carità) sono modi per avere un potere sul povero e sull’afflitto, ma questo è vero solo a livello di Chiesa, cioè di istituzione. A livello individuale è l’inverso: il povero che tende la mano ha un potere sul cristiano – specie se cattolico – che si sente in colpa per il proprio benessere, la propria piccola felicità precaria, e quindi concede la moneta, frettolosamente e senza guardare negli occhi il beneficiario (come mi comporto io lo scrissi anni fa). Così con il malato e così, in generale, col portatore del male; che va compreso prima ancora che punito; “lui non ha colpa”, “lui sarebbe stato buono se…”. Abbiamo biblioteche ricche e dotte di analisi e interpretazioni e spiegazioni sociologiche e psic[o]analitiche. Le sottoscrivo tutte, ogni libro spiega bene e saggiamente. E quindi? Quando anche so che quell’individuo malvagio avrebbe potuto essere diverso se solo avesse avuto un altro padre, se fosse nato in un altro quartiere, se avesse incontrato le persone giuste, cosa me ne faccio di questo sapere?

Come per le leggi, questo sapere deve aiutarci a costruire condizioni sociali ed economiche più eque. Quartieri più vivibili, condizioni lavorative più accettabili, una scuola più attenta, sostegno genitoriale. Ma per le prossime generazioni, che quelle già rovinate sono perse per la semplice ragione che occorrerebbe un programma sociale ciclopico e dispendiosissimo, per “salvare” una piccola percentuale di costoro. Che vi piaccia o no questo non è possibile. 

Non c’entra più la pietà, come il lettore ha intuito. La pietà, quella cristiana, è una grande ipocrisia intrisa di sensi di colpa, perché il pietoso, poi, resta nella sua comoda poltrona a consumarsi l’anima, ma non fa nulla in concreto, non può fare nulla né vorrebbe, in fondo, fare qualcosa (salvo un Santo ogni generazione, ma io non sono fra questi).

Resta il disincanto, da non confondere con l’indifferenza. Un disincanto laico, lontano dal cattolicesimo, che osserva la società e ne constata l’enorme imperfezione. L’imperfezione del mondo genera il male. È così, sia che siate pietosi o che non lo siate, che tendiate alla normatività punitiva o no. 

Il punto di vista disincantato si pone il problema della funzionalità del male e arriva alla logica conclusione che il male ha un devastante effetto negativo sull’intera società. Senza il male (senza i comportamenti malvagi) staremmo tutti meglio, più in salute, più benestanti, più felici. Poiché credo che sia una constatazione ovvia, e che non necessiti di alcuna dimostrazione (peraltro facilissima da produrre) non insisterò oltre, salvo dire che combattere il male è funzionale al vivere meglio mio e tuo, lettore, e quindi è conveniente

E’ conveniente non avere poveri, non avere malati, non avere disoccupati, non avere infelici. È conveniente per tutti avere genitori affettuosi, amici leali, colleghi di lavoro efficienti, datori di lavoro onesti. È conveniente avere una buona istruzione, fare vacanze appaganti, viaggiare e moltiplicare relazioni sociali positive.

Non è così (non abbiamo tutto ciò) perché la società attuale è primitiva e molto arretrata nella sua lotta contro il male. E questa nostra società arretrata mette in atto tutto il male di cui è impregnata per ostacolare il bene.

La teoria dei giochi spiega efficacemente perché il male, nel breve periodo, vinca sempre, mentre il bene si afferma (quando ce la fa) molto lentamente e con incertezza.

La spinta del bene è l’opera incerta (non c’è alcuna certezza degli effetti, comunque molto lontani nel futuro) che possono intraprendere le persone con una parte interiore di male (che tutti abbiamo) piccola, o sottomessa, o non eccessivamente esuberante. 

La spinta del bene, verso il bene, non c’entra nulla con la pietà. La pietà è un sentimento morale, e come tale soggiace al volere di terzi, è volubile ed è impietoso. Non credo che ci sia nulla di più impietoso del sentimento della pietà, e se la frase vi appare oscura fate un ripasso di storia.

La spinta del bene, verso il bene, è quanto di più razionale esista. È un programma politico. È l’azione combinata di molteplici individui, con varie e diverse funzioni di responsabilità, ruoli diversi, vincoli differenti, che agiscono con razionalità spingendo verso il benessere possibile per la maggior parte possibile di persone alle migliori condizioni possibili per il più lungo tempo possibile. Il più delle volte lo sforzo di queste persone è vanificato dalla massa di ignavia, ignoranza, opportunismo, cinismo (che è maggioranza); ogni tanto, per un’alchimia descrivibile solo ex post, e sempre con un certo stupore, i vari pezzi del puzzle vanno al loro posto, e una società evolve. Solo un pochino, ma evolve.