Ho espresso ieri il mio ultimo, inutile voto

Come avevo anticipato in questo blog, ieri sono andato al seggio e ho votato 5 “Sì” ai referendum sulla giustizia. Le ragioni le avevo già spiegate; fra i pochissimi che si sono esposti a favore del sì voglio menzionare Mattia Feltri, direttore dell’HuffPost, che ha scritto (bene come sa fare lui) cose molto analoghe alle mie. Ci sono stati molti altri, certo: gruppetti di liberali; l’ordine degli avvocati; perfino qualche magistrato. Clamoroso il silenzio della Lega (compagnia imbarazzante per chi, come me, ha votato sì), ancora peggio – mia opinione – la scelta del PD di schierarsi per il no,

(“Voterò 5 no al referendum. Riforme così complesse vanno fatte in Parlamento“; giusto – direi io – perché da 30 anni ne parlate e non le avete fatte?)

posizione che ha trovato degni fiancheggiatori in organi di stampa, vedi la Repubblica, che spiegando la scelta editoriale (fatto inusuale) di schierarsi per il no, la argomenta in maniera così banale e tendenzialmente capziosa che, letto assieme alla lucida amarezza espressa da Feltri, fa decisamente male al senso della misura, della logica.

Comunque non me la prendo per l’esito, per me ovviamente negativo. Chi partecipa a una competizione vuole vincere, ma mette in conto di perdere. Chi va a votare accetta di vedere primeggiare idee differenti.

La cosa che mi fa arrabbiare e rabbrividire è l’insensatezza del voto. A naso direi che fra il 20 e il 30% di coloro che sono andati al seggio (per lo più a votare sì), e fra il 60 e l’80% di coloro che si sono astenuti (quindi, a occhio e croce, una bella maggioranza di italiani) non hanno compreso nulla del senso dei referendum, figuriamoci poi nel merito, le singole questioni in ballo. Esattamente come per i referendum costituzionali del dicembre 2016, sui quali Hic Rhodus si spese molto, per discuterne il merito, sostenendo il sì. Ma anche allora la discussione fu pochissima, strumentale, faziosa, e sostanzialmente centrata sul meta-referendum “Vuoi tu fare un favore a Renzi? NOOO!”.

Sia chiaro: evviva chi ha votato “No” consapevolmente, conoscendo il merito dei quesiti, e comprendendone il generale senso politico. Io forse non sarò d’accordo con loro, ma potremmo certamente confrontarci e reciprocamente con-dividere dei pensieri.

L’altro giorno, chiacchierando coll’amico Machera (quello col quale ho scritto il libretto Pensare la democrazia nel terzo millennio), parlavamo di questo: il dibattito è totalmente sparito, in Italia, su praticamente tutto: ma avete visto o letto qualcosa sul PNRR? Sulla questione del lavoro, della previdenza, del futuro dei giovani? Sull’innovazione tecnologica? Su come regolare il flusso migratorio? O sulla guerra in Ucraina, che santocielo mi parrebbe attuale! Avete certamente letto delle dichiarazioni, sempre rigorosamente assertive, di questo o quel politico; se siete di quelli che incomprensibilmente guardano ancora i talk show avrete visto siparietti, commediole, acchiappa-gonzi con attori pagati per urlare con la bava alla bocca, indignarsi, perorare, fischiettare ma certamente mai, mai e poi mai argomentare, dialogare, riflettere e aiutare a farlo. Dove sta andando l’Italia in quanto a transizione ecologica? Quale progetto c’è per il Sud? Quale visione c’è sulla giustizia? Sul reddito universale? Sullo spopolamento delle montagne? Sulla parità di genere? Sul suicidio assistito? Sulla scuola e l’Università?

A proposito: è uscita da pochi giorni una delle tante classifiche che piacciono agli anglosassoni, questa relativa a 1.418 università nel mondo; per ragioni inspiegabili i nostri giornali si sono lusingati del fatto che la Bocconi di Milano è in classifica, prima fra le italiane, al centotrentanovesimo (139°) posto, seguita da Bologna, 167^ e dalla Sapienza di Roma, 171^. Ma di cosa parliamo? Ma dove andiamo?

Questa assenza di dibattito (vero) e di argomentazione (seria, logica) e di ricerca del dialogo (autentico) non riguarda il fatto che al cittadino arrivano solo scorie polemiche ma da qualche parte, qualcuno (i politici!) certamente ci sta pensando e ci risolve i problemi; se così fosse esisterebbe ancora quel genere letterario che una volta si chiamava “Programma politico” (anche nella versione “Programma elettorale”). Io mi ricordo quando esistevano e li leggevo. Alcuni anni fa già mi lamentavo della loro sostanziale sparizione (maggio 2016) ma, stupidamente, in occasione delle elezioni politiche del 4 marzo 2018 feci un lavoro faticosissimo: mi andai a cercare tutti i programmi politici (o facenti funzioni, simulacri, tentativi…) e ne feci addirittura una comparazione su una serie non piccola di temi chiave (rapporti con l’Europa, debito pubblico, ambiente, diritti…). Adottai quindi un sistema di punteggi e misi tutti i partiti in un tabellone che era disperante per la vuotezza complessiva che mostrava (se siete curiosi trovate tutto QUI). Chi vinse, poi, quelle elezioni? Il M5S e la Lega, che nella mia ricostruzione avevano addirittura punteggi negativi.

Non i peggiori; e comunque pochissime forze politiche raggiunsero un valore positivo, segno che i temi politici selezionati non erano stati oggetto di un’autentica riflessione. Quel tabellone, comunque, al netto delle scelte da me fatte in merito ai criteri, e degli errori di valutazione che posso avere compiuto, mostra in maniera inequivocabile che la stragrande maggioranza delle forze politiche si presenta all’elettorato con slogan, asserti, qualche bugia, volti, conclamate identità, ma senza visioni programmatiche.

Adesso chiarisco perché ho parlato di questo: io ho letto, ho ragionato, ho riflettuto, poi ho scritto quel post per aiutare innanzitutto me stesso a trovare una bussola e andare a votare con consapevolezza; con l’amico Ottonieri è questo che facciamo da diversi anni, senza pretese di avere delle verità, ma solo quella di avere degli argomenti; forse a volte errati, ovvio, ma sempre giustificabili con dati, con logiche, limitando al massimo le fallacie tipiche del ragionamento da bar. Chi vinse invece quelle elezioni? I peggiori, quelli senza programmi (e quindi senza idee), con slogan, con urla, con falsità, quelli che hanno pensato di “abolire la povertà” con il reddito di cittadinanza e di “spazzare via i corrotti” con Bonafede… Ma io, allora, per cosa diavolo ho faticato giorni per capire, prima del voto, se il mio capire è stato sepolto dalla fuffa, dalla retorica, dal qualunquismo?

Adesso faccio un altro salto. Per lunghi decenni i partiti ai quali facevo maggiormente riferimento venivano, ad ogni tornata elettorale, a raccomandarsi, a implorare, che “se vincono loro [gli avversari politici] è la fine!”. Io un po’ ci credevo, un po’ mi sentivo di quella parte, per lunghi decenni li ho votati, e ho visto la città dove vivo, da loro governata, nella regione in cui vivo, da loro governata, ridotta a strame di clientele, perdita sostanziosa di PIL pro capite, sgoverno del territorio, perdita di visione in materia sociale e sanitaria (dove un tempo eccelleva) e così via. Poiché, come dicono gli americani, la prima volta che mi freghi è colpa tua, ma la seconda è colpa mia, alla ventesima volta (io sono un po’ tardo) ho smesso di votarli, e come me tante brave persone; città e regione hanno cambiato colore e le cose, ovviamente, non sono migliorate né peggiorate, perché anche questi fanno le stesse porcherie, uguale uguale. Ma almeno sono “loro”, gli avversari, i porcaccioni, gli insensati, e io non ho votato questi né quelli di prima, e non mi sono caricato di colpe, prima fra tutte – la più grave – quella di consentire l’ennesima menata per il naso.

Probabilmente se abitassi in un condominio voterei ancora (sulle questioni condominiali) ma già non lo farei per il consiglio di classe se avessi figli piccoli; neppure la chat Whatsapp delle mamme ha una decenza accettabile, e poi si sa che non serve a nulla quell’organismo finto-partecipativo. I Comuni, che dovrebbero essere le istituzioni vicine ai cittadini, lo sono probabilmente nei paesi molto piccoli, ma già nelle medie città la complessità amministrativa nell’epoca dei diecimila vincoli normativi non consente più una grande manovra; voi pensate, per esempio, che Gualtieri riuscirà a fare un termovalorizzatore per risolvere il problema dei rifiuti? Ci siamo capiti. Via via le inutili Province, le cancrenose Regioni. Bassa politica, spartizioni, piccole manovre per accontentare le proprie clientele…

Così a livello nazionale, e torno a quanto scrivevo a inizio articolo. Una massa di miracolati la cui “visione politica” è limitata alla comparsata in TV, al traccheggio per arrivare a maturare la pensione, al voltagabbanismo opportunista. Sì, lo so che ci sono delle eccezioni; anch’io sono un’eccezione come elettore, ci sono eccezioni fra i burocrati delle Regioni e dei ministeri, ci sono eccezioni fra i politici. Ma dieci o cento che siano, non sono costoro a poter far cambiare rotta al Paese. 

Io li ho visti quelli bravi al lavoro. In diverse Regioni, in alcune Asl e Comuni… Dirigenti o funzionari con l’etica del lavoro e lo spirito di servizio che deve avere il civil servant. Se erano bravi ma di livello gerarchico medio, erano sfruttati nelle loro qualità, e zittiti nella loro possibilità di incidere nelle decisioni. Se invece – fatto assai più raro – erano di livello alto, hanno prima dovuto abbassare la testa di fronte alla protervia politica, poi alla fine sono stati costretti a rinunciare e cambiare lavoro. Ho una ricca aneddotica, favorita dal mestiere che ho fatto, vi chiedo di fidarvi.

Draghi sarà anche bravissimo – per dire – ma deve perdere metà del suo tempo a gestire le molestie di un Salvini che per quanto in crisi rappresenta una bella fetta di elettorato. Se si presentasse Draghi alle prossime elezioni farebbe la fine di Monti. C’è qualcuno in gamba nel PD ma, se fai il politico di professione, devi anche imparare a tenere la testa bassa. C’è qualche testa capace di pensare al centro politico, ma oltre a essere – ciascuno di loro – di una spiccata antipatia comunicativa, non ha alcuna speranza di affermarsi politicamente tanto da incidere sul governo del Paese, anche perché quelli bravi, diciamolo, stanno sulle palle alla massa di cialtroni che preferisce Meloni, o Salvini, o Di Battista.

Allora mi chiedo: ma perché dovrei ancora andare a votare? Ogni mio voto, da quando ne ho memoria, è andato sprecato. Ho votato per promesse esplicite di riforme che non sono mai state fatte; per promesse di progresso tradite sul nascere; per promesse di benessere affogate nelle spese inutili e nel debito pubblico. Ho compiuto da poco 70 anni, ma davvero devo ancora accettare di essere preso per il culo?

Conoscerete quella celebre massima, “Se non vai a votare poi non potrai lamentarti?” È falsa, è una presa in giro. Avrebbe senso in un sistema in cui i voti contano qualcosa. Allora, quelli che votando incidono nel tessuto del Paese, contribuiscono a cambiarlo, potrebbero guardare con commiserazione l’ignavo che si è astenuto e parlargli in quel modo. Ma non è così. Chi va a votare lo fa generalmente senza sapere, senza verificare, senza capire; lo fa fidandosi (che una volta va pure bene, già due no, figuriamoci per decenni consecutivi…); lo fa “turandosi il naso” e dicendosi che darà il suo voto al male minore, vale a dire che invece di morire fucilato morirà impiccato, una bellezza!

Allora ho deciso.

Salvo miracoli (per me: una forza liberal-socialista capace di essere competitiva, con leader credibili, programmi articolati e seri) non andrò più a votare. Sarò io che vi guarderò con una certa compassione e vi dirò “Ma davvero ci avevi creduto anche questa volta?”.

I lettori più attenti e affezionati (sì, abbiamo anche la categoria degli “affezionati lettori”, e ne andiamo fieri) potrebbero dispiacersi per questa sorta di resa; ma non devono sbagliarsi: non andare a votare non significa non fare più politica. Se la politica ha abbandonato questi partiti, questo Parlamento, queste competizioni elettorali, esiste una politica concreta e militante fatta di rigore, serietà professionale, responsabilità civica, disponibilità alla condivisione, etica del lavoro, rispetto delle leggi, che mi sembra sempre più urgente affermare e testimoniare. In un mondo che va imbarbarendosi, con i giovani abbandonati al loro destino, la sopraffazione è sempre a un passo dietro di noi; l’egoismo e l’individualismo, la mercificazione delle idee e delle persone, il linguaggio senza pudore, il qualunquismo egotico, la banalizzazione del senso della vita, la perdita dei legami forti e del senso del fluire storico… Ce n’è abbastanza per riempire di politica molte vite. 

Se il voto ha perso il suo senso politico, c’è un senso politico da costruire nelle nostre vite, e lì continuerete a trovarmi.