Archiviata la tragedia parigina e le varie e diverse reazioni politiche nei riguardi degli assassini e dei loro mandanti (un ricco dibattito al quale ha partecipato anche Hic Rhodus) le analisi possono farsi più fredde e lucide. C’è un tema fra gli altri, sollevato in particolare oltreoceano ma soffocato da noi dall’emotività del momento e dai milioni in piazza a Parigi, che a me sembra di estremo interesse anche al di là del problema del terrorismo, ovvero il necessario bilanciamento fra libertà d’espressione e diritti altrui, fra i quali il diritto di non essere oggetto di odio. Con esplicito riferimento al caso di Parigi per esempio David Brooks sull’International New York Times dell’8 Gennaio scrive chiaramente che un giornale come Charlie Hebdo negli Stati Uniti sarebbe stato chiuso 30 secondi dopo la prima uscita in quanto “istigatore d’odio”. Scrive Brooks:
The first thing to say, I suppose, is that whatever you might have put on your Facebook page yesterday, it is inaccurate for most of us to claim, Je Suis Charlie Hebdo, or I Am Charlie Hebdo. Most of us don’t actually engage in the sort of deliberately offensive humor that that newspaper specializes in. We might have started out that way. When you are 13, it seems daring and provocative to “épater la bourgeoisie,” to stick a finger in the eye of authority, to ridicule other people’s religious beliefs. But after a while that seems puerile. Most of us move toward more complicated views of reality and more forgiving views of others. (Ridicule becomes less fun as you become more aware of your own frequent ridiculousness.) Most of us do try to show a modicum of respect for people of different creeds and faiths. We do try to open conversations with listening rather than insult.
E dopo un’analisi conseguente a questa posizione conclude:
Healthy societies, in other words, don’t suppress speech, but they do grant different standing to different sorts of people. Wise and considerate scholars are heard with high respect. Satirists are heard with bemused semirespect. Racists and anti-Semites are heard through a filter of opprobrium and disrespect. People who want to be heard attentively have to earn it through their conduct.
Pur condannando – ovviamente – l’attentato, Brooks e diversi altri opinionisti americani sottolineano l’infantilismo di una satira estrema che ridicolizza altre credenze e appartenenze laddove una società matura, pur garantendo libertà d’espressione e critica, non offende altre componenti sociali.
Anche se questa posizione di tolleranza, ascolto e rispetto sembra ovviamente molto ragionevole, credo si aprano non pochi problemi estremamente pratici oltre che concettuali. Il primo e più ovvio è: dove si fissa l’asticella prima della quale è critica (o satira) legittima e rispettosa e dopo la quale diventa irrispettosa e infantile, passibile di giusta censura? Non credo di dovere fare lunghi discorsi per convincervi che tale asticella non si può fissare arbitrariamente una volta per tutte perché dipende dalle diverse sensibilità individuali nei diversi momenti storici e situazioni contingenti. Riguardo alla religione (che è solo un esempio che tratto qui data l’attualità col caso Charlie Hebdo) un’infinità di tiepidi credenti bestemmia, mentre non pochi devoti rigorosi si guardano bene dal pronunciare il nome di Dio invano. La blasfemia ha infinite sfumature delle quali solo la palese e crassa bestemmia è facilmente identificabile e condannabile. Una barzelletta su Gesù è indubbiamente di cattivo gusto per la maggior parte dei cristiani, ma una sui cristiani bacchettoni è la stessa cosa o è diversa (è una domanda-trappola, attenti a rispondere…)? Fatemi alzare il tiro: quando un non-cattolico si dice urtato dal crocifisso negli uffici pubblici e i fondamentalisti di casa nostra iniziano immediatamente a sparare con alzo zero, chi è tollerante e intollerante? Se io ateo mi dicessi offeso dal crocifisso, troverei un giudice a Berlino (e guardate che non è così difficile sostenere di essere offesi da simboli religiosi, non sarebbero necessariamente argomenti speciosi)?
Sono convinto che il concetto di blasfemia, o quello di rispettabilità delle opinioni come introdotto nella citazione iniziale di Brooks, riguardi semplicemente una declinazione locale del potere (l’intenso rapporto fra parole e potere è già stato trattato su HR). In alcuni paesi musulmani la blasfemia può essere punita con la pena di morte, ma fra sunniti e sciiti il concetto è diverso (nel Kuwait sunnita la minoranza sciita è considerata blasfema); in America non è reato perché violerebbe la costituzione ma – come ci ha spiegato Brooks – reato o non reato il Charlie Hebdo lì non si potrebbe pubblicare. Per i componenti di una comunità religiosa la blasfemia riguarda il loro credo e dove c’è maggioranza di tali credenti, contiguità col potere politico e scarsa liberalità questo sentimento viene protetto dalla legge, com’è stato a lungo in Italia dov’era reato, solo in parte mitigato dal 1999 quando è stato derubricato ad illecito amministrativo (??):
Chiunque pubblicamente bestemmia, con invettive o parole oltraggiose, contro la Divinità, è punito con la sanzione amministrativa da euro 51 a euro 309. […] La stessa sanzione si applica a chi compie qualsiasi pubblica manifestazione oltraggiosa verso i defunti (Decreto Legislativo n. 507 del 30 dicembre 1999).
Ed evidentemente deve essere chiaro a molti che il concetto funzioni poco bene quando declinato politicamente e giuridicamente se delle specifiche commissioni ONU sui diritti umani prendono una chiara posizione contro le norme che sanzionano la blasfemia. Per esempio il Rabat Plan of Action dell’Ottobre 2012 sostiene, fra l’altro:
At the national level, blasphemy laws are counter-productive, since they may result in the de facto censure of all inter-religious/belief and intra-religious/belief dialogue, debate, and also criticism, most of which could be constructive, healthy and needed. In addition, many of these blasphemy laws afford different levels of protection to different religions and have often proved to be applied in a discriminatory manner. There are numerous examples of persecution of religious minorities or dissenters, but also of atheists and non-theists, as a result of legislation on religious offences or overzealous application of various laws that use a neutral language. Moreover, the right to freedom of religion or belief, as enshrined in relevant international legal standards, does not include the right to have a religion or a belief that is free from criticism or ridicule (Rabat Plan of Action on the prohibition of advocacy of national, racial or religious hatred that constitutes incitement to discrimination, hostility or violence, punto 19).
Il documento prosegue con intelligenti raccomandazioni e con l’elencazione di elementi-soglia per discriminare se una certa espressione o se determinati discorsi possano essere offensivi oppure no, e questi elementi-soglia sono identificati dal contesto, dalla posizione più o meno rilevante di chi propone il discorso, l’intento e così via; vale a dire: se io scrivo qualcosa giudicato offensivo (blasfemo…) da un lettore peggio per lui, io sto esercitando un mio diritto di critica e finisce lì; se Salvini, bava alla bocca, si agita contro gli islamici a un raduno leghista chiedendo a gran voce pesanti misure repressive potrebbe anche essere istigazione all’odio. Perché ci sono contesti diversi, responsabilità diverse e diverse motivazioni.
Spero sia chiaro che fin qui mi sono limitato a trattare la blasfemia, e non la libertà di parola in senso generico. I testi che ho citato, la giurisprudenza e i commentatori internazionali di buon senso distinguono bene fra molti tipi di “offese” che si possono arrecare con un discorso (parola o immagine che sia): l’insulto, il falso, il dileggio, la costruzione di narrazioni tese a sminuire e disprezzare l’altro (fino alla vera discriminazione sanzionata dalla legge 205/93 che però non c’entra col nostro discorso) sono universalmente ritenute pratiche odiose da rigettare e sanzionare, ma questo ci riporta in mezzo al guado: dove fissare l’asticella? Io credo sia meno difficile di quel che non si creda fare almeno un passo avanti stabilendo questi pochi ed elementari principi che ormai fanno giurisprudenza anche in Italia. L’ingiuria (o addirittura la calunnia) non sono mai consentite; la critica politica è invece una libertà costituzionale sempre ammessa anche se feroce e corredata da frasi colorite, di impatto emotivo e oggettivamente offensive, e quindi non è perseguibile (sentenza Corte di Cassazione 7421/2013) se investe una scelta politica o un soggetto nella sua veste istituzionale (fonte), sempreché sia contestualizzabile, non investa la sfera personale del soggetto criticato e non sfoci nella diffamazione (sì, resta una vaghezza nell’asticella e infatti vi sono molte sentenze e casi specifici, ma l’orientamento della giurisprudenza è questo, in sintonia col documento Onu visto sopra).
La satira è in parte svincolata da quanto appena detto; alla satira non può essere imputato il criterio di giudizio della verità anche se continua a essere soggetta a un necessario limite di continenza (obbligo di rispettare il diritto all’identità personale, al rispetto del decoro, del pudore e dell’onore del soggetto, tenendo conto delle circostanze di tempo, luogo e modalità dell’offesa – fonte);
Il cosiddetto “diritto di satira”, che è una forma artistica che mira all’ironia sino al sarcasmo e alla irrisione, è tutelata dalla nostra Costituzione. In tal modo, all’interno della satira si possono veicolare anche notizie non vere, poiché, se scopo della satira è proprio quello di far ridere, essa è incompatibile con la verità. Tuttavia, quando, nel contesto del discorso satirico, ma al di fuori dell’oggetto della satira, venga riportata una notizia, si ha l’obbligo di riferire una notizia vera; diversamente non si può invocare la scriminante dell’esercizio del diritto di satira. Inoltre, con una sentenza [recente], la Cassazione ha precisato che il diritto di satira, sebbene possa in teoria sconfinare nella volgarità, non può eccedere arrivando a fare chiare allusioni nei confronti di soggetti determinati. Diversamente, scatta il reato di diffamazione (fonte).
Fin qui abbiamo però trattato l’offesa – reale o presunta – a persone, e non a idee, come nel caso della religione. La riforma dei reati in materia di religione (artt. 403, 404 e 405 CP) in seguito alla legge 24 Febbraio 2006 n. 85, pur lasciando spazi di dubbio e di interpretazione, indica un chiaro superamento delle vecchie impostazioni giuridiche basate sul Codice Rocco rappresentando i diritti dei cattolici (e di qualunque altra religione) non più oggetto di particolari tutele passibili di sospensione dei diritti di opinione sanciti dalla costituzione (la questione è più complessa di quanto dichiarato in queste poche righe ma il succo è questo; per un approfondimento specialistico e dotto suggerisco Fabio Basile, A cinque anni dalla riforma dei reati in materia di religione). Poiché non devo scrivere un articolo giuridico mi accontento di concludere osservando come la giurisprudenza anche in Italia va sempre più adeguandosi a quella delle società liberali occidentali, dove fa premio la responsabilità individuale (solo in questo senso posso apprezzare la citazione di Brooks iniziale) in un quadro complessivo di libertà di espressione (e quindi satira, critica e financo blasfemia).
E i credenti (cattolici o musulmani) che si sentono offesi che fine fanno? Aspettano che gli passi, direi. In un mondo interrelato, secolarizzato, plurale e liquido, ciascuno di noi ha molteplici occasioni per sentirsi in qualche modo disturbato dalle opinioni altrui. La tolleranza (di cui Brooks all’inizio) non può quindi essere la guida per comportamenti repressivi (poiché sono tollerante mi reprimo e autocensuro e non critico il prossimo) ma una virtù di coesistenza plurale in cui tollero chi mi critica. La persona tollerante non utilizza le proprie credenze e convinzioni per limitare il prossimo, ma per accettarne anche gli aspetti divergenti, in particolare quelli ideali e valoriali. Ed ecco che abbiamo colto anche l’enorme differenza fra noi occidentali e i paesi retti da regimi islamici; questi concetti di libertà e di tolleranza sono principi liberali che abbiamo impiegato secoli a elaborare, un percorso che l’Islam non ha neppure avviato (come abbiamo dibattuto nel precedende articolo, Il bivio dell’Occidente dopo la strage di Parigi).
Post scriptum: immagino che a Manila il papa sia arrivato stanco e una stupidaggine la possiamo dire tutti, ma il pugno in risposta della maldicenza sulla mamma (metafora della religione criticata dai blasfemi) mi è sembrata una battuta grave.
Ringrazio Manrico Tropea per la cortese prima lettura.