Una professoressa coi suoi studenti, durante una recente manifestazione, polemizza con un poliziotto che l’invita a rispettare le leggi replicando “Non si rispettano regole sbagliate”. Sull’onda, poi, continua, a titolo di esempio, sentenziando che nel ’38 le leggi razziali non si dovevano rispettare. L’idea che ribellarsi è giusto (da Sartre a Ottolenghi), che la lotta contro il potere sia sempre corretta (da Pasolini a De Luca – Erri, non Vincenzo) che bisogna essere sempre indignati (Hessel) e via discorrendo è antichissima, sia pure con motivazioni e forme storiche diverse ma si manifesta oggi con una diffusione di massa, una continuità e una pervasività particolari, per una serie di ragioni già molte volte spiegate qui su HR (benessere e cultura di massa, almeno in Occidente; complessità e articolazione sociale; comunicazione facile e non sempre ben meditata dei social; consapevolezza delle disuguaglianze etc.).
Allora voglio discutere questo tema: è giusto disubbidire (ribellarsi, combattere, compiere atti di disubbidienza civile, etc.)?
Vi anticipo la mia risposta così non leggerete alla luce di una qualsiasi ambiguità: dal mio punto di vista sì, è giusto disubbidire e ribellarsi. Ma solo se guidati da una consapevolezza particolarmente acuta. Cosa intendo con “acuta consapevolezza”? Intendo una cosa molto molto semplice da affermare qui ma altrettanto difficile da mettere in pratica: ci sono molteplici verità, non una sola (ne ho trattato approfonditamente QUI) ed è difficilissimo, e possibile solo in rari casi, stabilire che alcune presunte “verità” sono in realtà false. Una verità ultima, imprescindibile, è possibile solo (in ordine di indiscutibilità):
- in ambito teologico – se credenti –, un ambito che non può dialogare con nessun altro in quanto chiuso, autogiustificato e necessitato di un prerequisito, quello della fede. Di questo non tratteremo proprio.
- in matematica perché è un linguaggio simbolico per costituire asserti logici (Husserl, Wittgenstein, Russell e molti altri, non in maniera univoca e non senza contrapposizioni reciproche anche aspre); ciò significa però che le espressioni matematiche non sono ‘vere’ nel senso qui inteso ma che descrivono correttamente una relazione logica;
- in fisica e altre scienze cosiddette “naturali” ma solo sotto l’egida della possibile falsificazione (vale a dire: una teoria non è mai “vera” ma solo valida fintanto che non viene falsificata, come ha sostenuto Popper); siamo usciti dal concetto di ‘verità’ per assumere quello di ‘validità’… tutt’un’altra storia.
Tutto il resto, assolutamente TUTTO il resto, non può ricevere alcuna patente di verità assoluta, ultima, indiscutibile, non negoziabile.
Soffermiamoci un momento su quest’ultima affermazione: per sostenerla senza farvi perdere troppo tempo mi basterà segnalare che “tutto il resto” è la nostra vita quotidiana. Potete chiamarlo lavoro, letteratura, sport, amore, scienza (al netto del punto precedente) ma è tutto basato sul nostro pensiero applicato al mondo, sulle nostre relazioni e le impressioni che ne ricaviamo, sulle nostre interpretazioni del reale alla luce delle nostre competenze e capacità. Come pretendere una verità ultima e univoca? Una dimostrazione empirica: se ci fosse una sola verità, salvo i ciechi tutti la vedremmo nello stesso modo (che è poi l’assunto cartesiano del Discorso sul metodo, una rivoluzione del pensiero scientifico, all’epoca…) e non avremmo bisogno di litigare sulla politica o sui meriti della Juventus o su qualunque altra cosa. Ci sono molteplici realtà, molteplici maniere di vederle e conseguentemente molteplici pretese di verità.
Tutta questa lunga premessa serve per capire che anche le idee di “regole” e “leggi” e “poteri” e “autorità” e così via è frastagliata e non omogenea fra noi. Quando parliamo di disubbidire all’ordine costituito, di infrangere consapevolmente regole che disapproviamo, deve quindi essere chiaro che intendiamo imporre un nostro personale concetto di verità sugli altri. È evidente che siamo intimamente certi di essere nel giusto, ma si tratta in realtà di una giustezza relativa, valida per noi e per coloro che ci danno ragione. Infrangere una regola non significa ripristinare una verità dimenticata contro i sopraffattori che l’hanno soffocata, ma imporre una nostra regola sopra quelle collettive. Ma adesso dobbiamo far fare un passo avanti alla nostra argomentazione, e lo farò con due esempi limite:
- all’incrocio il semaforo è rosso ma ho totale visibilità e vedo chiaramente che non sopraggiunge alcun veicolo. Decido quindi di passare col rosso infrangendo una regola. Ho fatto bene o male? In questo esempio non c’entra la presenza di un eventuale vigile che mi potrebbe fare la multa; qui sto facendo i conti con un semplice problema morale. Io sono tenuto a rispettare le regole del traffico sempre, e se non lo faccio è una mia responsabilità. Se vedo chiaramente che non ci sono altre macchine e passo col rosso le mie responsabilità verso terzi sono praticamente nulle ma quelle morali permangono; se passo compio una scelta di questo genere: “in questo specifico caso me ne infischio delle regole perché sarebbe inutile e mi sentirei uno sciocco”;
- entrano in casa dei ladri armati di bastoni; sono evidentemente strafatti di coca, hanno un comportamento molto aggressivo e per intimarmi di dar loro i soldi che non possiedo picchiano mia moglie. Io apro il cassetto ed estraggo la pistola, sparo e li uccido. In questo caso – ammesso che sia riuscito a ragionare lucidamente – ho infranto ogni legge morale e giuridica ma ho compiuto delle scelte. Non mi sono posto il problema della sproporzione eventuale del mio gesto, né ho prove del fatto che i rapinatori potessero attentare alla mia vita…
Questi due esempi insegnano quanto segue: ognuno di noi ha una sua gerarchia di priorità (e di opportunità, e di rilevanza etica…) per giudicare il proprio comportamento. Probabilmente molti miei lettori sono d’accordo che l’esempio del semaforo è banale e, tutto sommato, viste le circostanze si può passare lo stesso. L’altro esempio è piuttosto attuale e non siate frettolosi nel giudicarlo; anche se oggi siamo molto propensi alla risposta emotiva non possiamo non considerare grave la giustizia fai-da-te che non a caso, in Italia, è pesantemente sanzionata.
Torniamo all’attualità, all’oggi e a casi concreti. La TAV è una minaccia per le popolazioni valsusine e merita una forma di disubbidienza anche abbastanza estrema? Se io avessi un parere diverso cosa potrei fare, salvo appellarmi alle autorità? Se vedo che lo Stato spreca i soldi delle mie tasse ho diritto a esercitare una forma di disubbidienza fiscale? Ma se quello che io chiamo ‘spreco’ per voi è una buona iniziativa non avreste voi il diritto di farmi perseguire? Se ho bisogno di costruire un piano rialzato nella mia abitazione, frutto di tanti sacrifici, perché dovrei permettere a stupide leggi di intralciarmi e non dovrei costruire abusivamente? Ecco, il cuore di ogni problema è esattamente questo: abbiamo scale di valore diverse (oltre a diversi interessi, diverse paure…) e in nessun modo riusciremmo a trovare una sintesi ragionevole, se non su temi marginali; perché i valori non sono negoziabili. Se penso che un certo comportamento sia giusto, se credo che un dato principio sia indiscutibile, se sono convinto che il Bene sia quello e non quest’altro, oltre ad accapigliarmi sterilmente non mi resta che accettare un compromesso che accompagna lo sviluppo della civiltà umana: affidarmi a un Ente terzo, superiore, delegato a stabilire criteri accettabili e sufficientemente condivisi (non universalmente condivisi): lo Stato di diritto, con le sue leggi e gli organi deputati a farle rispettare. Allora va bene passare col rosso ma – introducendo ora il vigile – se ci beccano ci multano e tolgono sei punti patente, e probabilmente lo accettiamo a malincuore perché sappiamo che quelle regole, anche se stupide in certi casi, fanno parte di una sorta di patto sociale che infrangiamo a nostro rischio.
Ma con le leggi razziali come la mettiamo? Perché qui il caso è diverso, ovviamente, e possiamo concludere tornando alla frase iniziale. Coloro che si ribellarono alle leggi razziali in Italia (o all’insorgere del nazismo in Germania, alla caccia alle streghe maccartista in America, alla rivoluzione culturale di Mao…) furono una minoranza intellettuale (il mio concetto di ‘intellettuale’ ha molto a che fare con la sostanza e poco col ruolo formale) che avevano una consapevolezza, una visione, un’etica oltre alla capacità di accettare le conseguenze della loro scelta. Occorre avere una statura intellettuale e morale superiore ma, poiché ciascuno di noi sa nel proprio intimo di essere una persona eccezionale, torniamo al problema fondamentale che non abbiamo metri oggettivi esterni a noi per stabilire la nostra ragione. Negli esempi fatti sopra (dalle leggi razziali alla rivoluzione culturale) è stata la storia a mostrare a tutti noi chi aveva ragione: avevano ragione gli antifascisti italiani, avevano ragione i liberali americani, avevano ragione gli oppositori di Mao… Ma riusciamo a dirlo ora, alla luce di una storia che è andata in un certo modo: se il fascismo avesse vinto in Europa forse l’antisemitismo sarebbe un fatto normale per la maggioranza di noi.