Ci sono tre potentissime tradizioni di pensiero relative al nostro comportamento verso il prossimo, ovvero l’altro, lo sconosciuto, il malato, l’immigrato, il povero e via discorrendo. La prima tradizione è ovviamente quella cristiana.
Amerai il prossimo tuo come te stesso (Mt 22,39).
è frase nota ma assai più profonda di quello si può superficialmente pensare; e di antica tradizione giudaica, vetero testamentaria e quindi anche musulmana.
Il tema dell’amore verso il prossimo (amore agapico) pervade il Vangelo e dovrebbe essere la regola aurea del buon cristiano. È un amore disinteressato e senza motivo perché universale e senza motivo è l’amore di Dio.
Paolo, il vero fondatore del Cristianesimo, nella lettera ai Romani (13:8-9) scrive:
[8] Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole; perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge. [9] Infatti il precetto: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso.
Questo passo è emblematico perché introduce una gerarchia logica fra i comandamenti e i primi due (ama Dio, ama il prossimo) sono evidentemente onnicomprensivi e sovraordinati ai successivi (anche se questa gerarchizzazione non piace a teologi e fedeli, perché metterebbe in crisi la struttura finalistica e necessariamente coerente di ogni parola di Dio, di Gesù, degli apostoli). Ma questo non è un blog di esegesi delle Sacre Scritture e quindi accontentiamoci di dire che l’amore verso il prossimo è, dopo l’amore verso il Creatore, il più grande dovere del cristiano: amore disinteressato, amore assoluto. Perché? Non già perché lo dice Dio (questo vale per il Vecchio Testamento) ma perché essendo Dio (quello del Nuovo Testamento) amore verso la sua creatura (l’uomo) non si può amarLo senza amare la Sua opera. Nell’atto di amare il mio prossimo io amo Gesù, che si incarna in lui, che è morto per lui. Questa bellissima generosità, cuore del cristianesimo, vale ovviamente per chi è cristiano o, per lo meno, per chi accetta l’idea di una divinità trascendente e, nel caso specifico, di un dio fatto uomo. Per mettere d’accordo tutti, anche i non cristiani, ci occorre una tradizione di pensiero laica.
La più importante di tutte è quella che fra Otto e Novecento ha scaldato milioni di cuori, fra socialismo anarchico e marxismo, passando per varie correnti, gruppi, partiti e movimenti, politici e filosofici. Una delle più note dichiarazioni in merito all’uguaglianza fra gli uomini, e di conseguenza al bisogno di occuparsi del prossimo, di aiutarlo nella sua emancipazione politica e sociale, è questa di Bakunin:
Io sono veramente libero solo quando tutti gli esseri che mi circondano, uomini e donne, sono ugualmente liberi. La libertà degli altri, lungi dall’essere un limite o la negazione della mia libertà, ne è al contrario la condizione necessaria e la conferma. Non divengo veramente libero se non attraverso la libertà degli altri, così che più numerosi sono gli uomini liberi che mi circondano, e più profonda e ampia è la loro libertà, più estesa, profonda e ampia diviene la mia libertà. È invece proprio la schiavitù degli uomini a porre una barriera alla mia libertà, o, che è lo stesso, è la loro bestialità a negare la mia umanità; perché, di nuovo, posso dirmi veramente libero solo quando la mia libertà, o, che è lo stesso, quando la mia dignità di uomo, il mio diritto umano, che consiste nel non obbedire a nessun altro uomo e nel determinare i miei atti in conformità con le mie convinzioni, mediate attraverso la coscienza ugualmente libera di tutti, solo quando la mia libertà e la mia dignità mi ritornano confermate dall’assenso di tutti. La mia libertà personale, così convalidata dalla libertà di tutti, si estende all’infinito (Michail Bakunin, La libertà degli uguali, a cura di Giampietro N. Berti, Elèuthera, Milano 2000, pp. 81-82)
Questo pensiero sarà ampliato da Marx rifiutando le libertà individuali, considerate borghesi; per Marx c’è una perfetta compenetrazione fra l’individuo e l’insieme degli uomini, e la libertà consiste nell’abolizione della proprietà attraverso la rivoluzione del proletariato. Se infatti la libertà individuale segna il limite, l’isolamento dell’uomo verso l’uomo (ne La questione ebraica), la libertà a venire, frutto dell’emancipazione politica del proletariato, renderà liberi tutti, e quindi ciascuno. La necessità socialista, comunista, marxista, di occuparsi del prossimo (il proletario) deriva quindi da una teleologia comunitaristica; la liberazione degli oppressi è necessaria per l’emancipazione di ciascuno. Se non liberiamo tutti gli oppressi non arriveremo a conquistare il mondo migliore al quale agogniamo e che, da soli, non potremo raggiungere. Bisogna dire che anche qui non possiamo convincere tutti della bontà di queste idee, e non solo per il fallimento di tanti aspetti della filosofia socialcomunista e marxista, ma più semplicemente perché l’a priori sul quale si fonda tutta l’argomentazione è chiaramente ideologico, storicamente superato, materialmente irrealizzabile.
Una terza via è rappresentata dal pensiero liberale. Scrive Corrado Ocone:
il liberalismo pone come valore fondamentale l’individuo o, meglio, l’essere umano. Bisogna però fare attenzione: l’individuo non può essere più considerato, nella nostra età tardo-moderna, un’entità stabile, compiuta, definita, compatta e indivisibile (un in-dividuo). L’individuo dei liberali è, realisticamente, una creatura finita, fallibile, non autosufficiente. Pertanto connessa al liberalismo è l’idea di relazione: data la loro natura di essere finiti, gli uomini hanno reciproco bisogno gli uni degli altri; le informazioni e i beni sono diffusi nel tessuto sociale e senza la possibilità dello scambio non potrebbero circolare. Il mercato, inteso sia in senso economico sia extraeconomico, è il luogo ove avviene la transazione liberale. Essendo un’istituzione umana e non affatto spontanea, esso è imperfetto e va costantemente rimodellato e ricreato (fonte).
Senza approfondire troppo per non annoiare i lettori, appare evidente l’idea di questa visione. Gli uomini hanno bisogno l’uno dell’altro per ragioni pratiche, ma poiché il mondo liberale (il mercato) è consapevolmente imperfetto, questo pensiero include il conflitto come forza necessaria a mantenere una giusta tensione e contrapposizione fra spinte divergenti. Il testo di Ocone è chiaro e di semplice lettura e tratta anche di uguaglianza, giustizia, etc. e ad esso rimando. Ora: senza confondere liberalismo (come filosofia generale, economica, sociale e culturale) con liberismo, neo-liberismo e via discorrendo, occorre considerare se la presunta omeostasi implicita nel pensiero liberale originario (ed esasperata nel pensiero economico neo-liberista) sia solo un’aspirazione novecentesca (esattamente come il socialismo reale) o se abbia resistito all’impietosa critica del tempo. Onestamente sono dubbioso. Da un lato ci appaiono diseguaglianze crescenti, repentini cambiamenti di scenario internazionale che fatichiamo a comprendere come logica ma, dall’altro, dati alla mano, la nostra specie non è mai stata così bene. E il principio utilitarista che guida il pensiero liberale ha l’enorme vantaggio, rispetto alle precedenti due tradizioni, di non essere basato su un a priori, su una trascendenza, su un’ideologia. Il prossimo ci serve, e per questo lo rispettiamo. Abbiamo bisogno di molteplici attori attorno a noi per costituirci, tutti assieme, come società. Quella società che è indispensabile alla nostra sopravvivenza. Una società liberale, quindi, si prende cura dei suoi membri perché funzionali al sistema, e fin qui ci siamo. Ma la prova del nove riguarda la seguente domanda: i membri inabili, ipodotati o semplicemente sfaccendati, che non danno nessun contributo alla società sotto il profilo utilitaristico, che fine devono fare? Ecco: sono costoro “il prossimo” di cui voglio discutere: gli zingari, i subsahariani all’uscita dei supermercati, i neet, gli anziani e così via, che fine devono fare? Dobbiamo voler bene a loro perché? Dobbiamo sostenerli e aiutarli e accudirli, perché? (Fuori dal pensiero cristiano e marxista, ovviamente). Anche se il liberalismo, ponendosi queste domande, ha generato correnti di pensiero come il liberalsocialismo e il socialismo liberale, attente all’equità e alla giustizia sociale, resta il problema del perché. Per quale motivo chiaro ed esplicito (che escluda la ricompensa del Paradiso) dovrei essere pietoso verso costoro?
Sarà chiaro ai lettori che sto cercando una ragione alla necessità di fare del bene. Al di là del sentimento (individuale, soggettivo, cangiante) di pietà per il povero, il malato, il carcerato, per quale ragione veramente e puramente altruista dovrei fare qualcosa per loro? Ho introdotto il concetto di ‘altruismo’ non per caso. Né la tradizione cristiana né quella socialista e marxista sono altruiste, ché anzi operano il bene verso il prossimo per una ragione pratica: il Paradiso o il Sol dell’avvenire. Anche se mascherati da amor di Dio e del Proletariato. In questo senso la logica utilitarista liberale è quanto meno più sincera. Al solo fine di complicarci la vita introduciamo a questo punto il pensiero di Nietzsche che si contrappone nettamente a tutte le precedenti. Si contrappone al pensiero cristiano, come noto, ma anche alle filosofie di stampo socratico che pretendono una razionalità sociale fondata sui doveri. Cristianesimo e morale razionalista (quale quelle social-marxiste e liberali) riducono l’uomo in schiavitù.
L’uomo libero è privo di eticità, poiché egli vuole dipendere in tutto da sé e non da una tradizione […]. Che cos’è la tradizione? Un’autorità superiore, alla quale si presta obbedienza non perché comanda quel che ci è utile, ma soltanto perché ce lo comanda (Friedrich Nietzsche, Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, Adelphi, Milano 1978, p. 9).
Ma anche:
La moralità è l’istinto del gregge nel singolo (Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, Adelphi, Milano 1977, p. 116)
Il pensiero nichilista di Nietzsche si pone quindi realmente come terzo, rispetto a quelle filosofie (o religioni, o teorie economiche) che si propongono, esplicitamente o implicitamente, una morale che includa il bene dell’altro da noi. Per Nietzsche la carità cristiana è il massimo simbolo del servo nel noto rapporto signore-servo in cui il secondo ha una morale e attribuisce valore alle azioni, mentre il primo agisce in funzione degli obiettivi e possiede una diversa morale che potremmo definire “eroica”:
Non ci sono affatto fenomeni morali, ma solo interpretazioni morali dei fenomeni (Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male, Adelphi, Milano, 108).
Ma non dobbiamo scrivere un trattatello neppure su Nietzsche e avrete inteso il senso di questo paragrafo.
In cerca di una spiegazione: tre grandi tradizioni di pensiero occidentali, compresenti fra Ottocento e contemporaneità, offrono spunti differenti circa la carità, la pietà, la relazione empatica se non addirittura di amore verso il prossimo, ma nessuna è in grado di spiegare perché sia necessario tale amore se non ricorrendo a Enti terzi (Dio lo vuole, la felicità socialista lo vuole, l’utilità sociale lo vuole). Una via d’uscita, quella nichilista di Nietzsche, offre una soluzione drammatica, interpretandola in modo estremo, e sostanzialmente senza speranza. Sembra insomma difficile trovare una risposta al Bene in campo filosofico che, si badi, non è un campo astratto ma quello che dovrebbe aiutarci a trovare risposte generali non vincolate a spiegazioni meccaniciste. Di queste ultime ne troviamo quante ne vogliamo e, per semplicità, le esemplificherei nelle tre principali: antropologica, psicologica e biologica. Non mi voglio dilungare, perché queste non sono le spiegazioni che cerco. Diciamo:
- spiegazione antropologica: da primate a homo sapiens abbiamo sviluppato un sistema simbolico elaborato, imparando a organizzare la nascente società umana con riti, simboli, linguaggi; la necessità sociale dell’uomo, sostitutiva di quella di branco, ha condotto fra le altre cose all’elaborazione di una morale, sovrastruttura culturale della necessità di regole condivise;
- spiegazione psicologica: dalle pulsioni di vita e di morte freudiane al male come coscienza del mondo di Jung, la psicologia analitica ha indagato in vari modi la presenza del male nell’uomo. Dopo di che il rapporto con la madre, il desiderio di morte, i sensi di colpa, etc…
- infine quella biologica: abbiamo sempre più contezza degli aspetti “meccanici” dei nostri sentimenti, le endorfine, l’appagamento chimico dentro il nostro cervello…
Ecco, allora, che mescolando queste e altre conoscenze possiamo leggere, nel nostro comportamento verso l’Altro, un mix di norme sociali ataviche, difese, sensi di colpa, biologia e altro, ma queste spiegazioni non appagano la mia curiosità perché, salvo considerarmi una macchina eterodiretta, io so di essere, e voglio e debbo capire come agire prima di accorgermi di essere agito. Non trovo convincenti spiegazioni neppure in ambito scientifico del perché io debba amare il prossimo.
A meno che non pensiate che io sia un filino ossessivo, la necessità di una spiegazione universale all’amore verso il prossimo dovrebbe sembrarvi sensata perché riguarda i fondamenti della nostra vita sociale: la politica, per esempio, o è ridotta a guerra di bande o è lo strumento per conseguire il bene comune; il volontariato è una pura espressione di amore verso l’Altro; ma tutta la struttura economica dichiara di fare il bene di tutti, sia pure in forme contorte, e se non lo fa non è – dice lei, la struttura – per colpa sua ma per accidenti imprevisti, per fattori inimmaginati o per la cattiveria di Soros. Ah, se solo tutto funzionasse come diciamo noi! dicono Economia, Politica, Religione… tutto funzionerebbe bene, non ci sarebbero poveri, tutti saremmo felici in una società armoniosa. Ma non è così: il mercato è luogo di pescecani, la politica di opportunisti e mi astengo sulle religioni. E abbiamo milioni di reietti, di bimbi che muoiono di fame, di profughi e sfuggiti alle guerre, di anziani ai limiti di povertà, di malati abbandonati. Il quadro è assolutamente questo. E in questo quadro continuo a porre la domanda: in base a quale legge (non divina), pulsione (inconscio a parte), necessità io mi impegno (oppure no) per il bene di questi reietti, per la loro sopravvivenza, protezione, cura? Cosa mi impone di muovermi empaticamente verso l’Altro da me, sfortunato e maledetto?
La mia risposta è: nulla. Nulla me lo impone. Se non siete timorati di Dio (grande è la carità dei veri credenti) non c’è una sola ragione per andare missionari in Africa, curare i lebbrosi in India ma anche, semplicemente, fare la carità all’accattone fuori dal supermercato. Non ci sono sanzioni all’egoismo né premi all’altruismo. Muoiono bambini come mosche, di fame e di stenti, ma la cosa non disturba i nostri aperitivi con gli amici; tranne quando arriva sui mass media la tragica foto di Aylan, cadaverino sul bagnasciuga turco. Che commozione sarebbe quella, che dura poi poche ore, se non impone di andare a fare qualcosa di concreto? Una commozione fasulla, recitata; la convenzione borghese della commozione verso l’impietoso destino di quel bimbo, su cui proiettiamo le nostre ansie genitoriali per il destino dei nostri grassi figli. In migliaia giacciono cadaveri nel Mediterraneo, e siamo anche disposti a passare una domenica in marcia per una bella manifestazione a favore dell’accoglienza, contro i muri, contro il razzismo; come ci sentiamo bene, dopo! Ma quanto fastidio per le migliaia che invece di annegare affollano la nostra pelosa ospitalità, che fastidiosi, andate un po’ più in là. Ecco: guardando oltre le convenzioni stereotipate che ci impongono di “fare” i buoni, noi non riusciamo ad “essere” buoni. L’uomo è per sua natura cattivo:
L’uomo fa il male come le api il miele (Golding).
Che poi, sia chiaro, non si tratta del “male” in senso cristiano. Non è Satana. È la voglia potentissima di vivere, di prevalere, di possedere; una forza ancestrale che è inscritta in ciascuno di noi:
mors tua vita mea.
Sappiamo tutti, intimamente, che la nostra mortalità è definitiva. E vogliamo stare meglio possibile. Vorremmo tutti fare la vita bruta: mangiare, dormire, fottere. Gli altri diventano quindi mezzi per raggiungere questi scopi e solo la paura di sanzioni, conseguenti a leggi che piegano la nostra natura brutale, ci frena. Chi lascia tracimare la sua natura bruta ha fortuna o finisce in galera; chi non ha modo di lasciarla fuoriuscire invoca la morale (e questo è di nuovo Nietzsche).
La cupa conclusione che mi sento di offrirvi è semplicemente questa: ciascuno di noi si comporta non già in base a leggi universali di bontà e carità, che non esistono; ma in base al calcolo della convenienza. I deboli sopportano e soccombono; i più forti comandano e approfittano; in mezzo la grande massa che invoca leggi morali; ogni tanto; quando occorre. Tutti, comunque, accumunati da regole, leggi, princìpi (anche morali) sviluppare nei secoli (nei millenni) per consentirci una decente convivenza, utile sostanzialmente ai più (una teoria dei giochi su scala planetaria evolutasi nel tempo, con successi e insuccessi).
Chi sente autentico amore verso il prossimo, e realmente, fattivamente, continuamente, opera per migliorare le condizioni di costui, fa bene; lo faccia. È la sua natura, suo desiderio, suo appagamento anche narcisistico e va bene.
Chi non lo sente, e fa poco o nulla, non fa bene, naturalmente. Ma non fa neppure male. Ha una morale diversa, vive diversamente la sua condizione di membro di questa società. Questa, sia chiaro, è la condizione “normale”, della grande maggioranza di noi.
Chi scivola fuori da questa morale e ne vede con chiarezza l’origine convenzionale, vive sulla lama di un coltello, sempre in bilico fra una socialità disincantata e “fredda”, ma accettata, oppure fuori, scivolando nella marginalità, nella follia, nel Male.
E onestamente non vedo cos’altro si possa dire, salvo fare un’ultima annotazione. Importante. Anche senza la guida di una morale strutturata e codificata, qualunque nostra azione (o non azione) ha delle conseguenze. Anche se agiamo (con bontà, con cattiveria, con indifferenza…) sugli altri, tali conseguenze hanno sempre delle conseguenze su di noi. Semmai non subito, semmai non materiali. La nostra “morale” (implicita, variabile, nichilista, comunque sia ce n’è una) può essere prodiga verso il prossimo o indifferente ai suoi dolori; può essere generosa o restia, comunque sia noi siamo nel mondo e il mondo ci restituisce una reazione corrispondente a ciò che noi facciamo. Noi quindi siamo responsabili; tale responsabilità può non fare parte di un “contratto sociale”, di un “catechismo”, di una “regola”, ma non possiamo sottrarci ad essa. È la responsabilità, intesa come coscienza delle conseguenze del mio agire, che fa di me un individuo morale. E in questa accezione la morale diventa semplicemente l’insieme delle pratiche autodirette, delle regole anche implicite, del linguaggio sociale che io, essere umano, ho deciso di darmi.
Io sono umano. E scelgo. E accetto le conseguenze. E oltre non credo si possa andare.
La morale su Hic Rhodus: