Trasumanar e argomentar

La libertà è “intollerabile” all’uomo (specialmente giovane), che si inventa mille obblighi e doveri per non viverla (P.P. Pasolini).

Le parole ci impediscono il cammino. Ovunque i primitivi stabilivano una parola, credevano di avere fatto una scoperta. Ma come diversamente stavano le cose, in verità! Essi avevano toccato un problema e, illudendosi di averlo risolto, avevano creato un ostacolo alla sua risoluzione. Oggi, ad ogni conoscenza, si deve inciampare in parole dure come sassi, eternizzate, e invece di rompere una parola ci si romperà una gamba (F. Nietzsche, La nascita della tragedia).

Prima parte: trasumanar

  1. Qualunque discorso nasce dall’interno e si sviluppa verso l’esterno. Da “Mi passi il sale, per favore?” fino a “La ragion pura è di per se stessa pratica e dà all’uomo una legge universale, che noi chiamiamo la legge morale”, ogni asserto nasce dal continuo riadattamento dei nostri schemi mentali al contesto (situazioni, relazioni…). La materia è talmente complessa (e terribilmente affascinante) che non è ancora chiaro e definitivo come diavolo sia possibile che noi abbiamo concetti che indirizzano parole e parole che definiscono concetti. Ciò che sappiamo con ragionevole certezza, comunque, è che livello intellettivo, esperienze, sesso ed età, educazione, letture, viaggi… contribuiscono a formare tali schemi mentali, mai fissati una volta per tutte e permeabili alle stimolazioni esterne, almeno entro certi limiti. Quindi il mio interno – che se volete potete chiamare ‘personalità’, ‘carattere’ o come vi pare – non può mai coincidere perfettamente col vostro interno, che per è il mio esterno.

Io ti vedo e tu mi vedi. Io esperimento te e tu esperimenti me. Io vedo il tuo comportamento. Tu vedi il mio comportamento. Ma io non ho nessuna possibilità di vedere, né mai vedrò la tua esperienza di me. Proprio come tu non puoi “vedere” la mia esperienza di te. La mia esperienza di te non è “dentro” me. Essa è semplicemente te, come io ti sperimento. E io non sperimento te dentro me. Allo stesso modo, considero che tu non sperimenti me dentro te (Ronald Laing, La politica dell’esperienza).

  1. Qualunque discorso nasca in te (qualunque “esperienza” nel senso di Laing) non può che essere incompleto e confuso. Non è colpa tua, non è colpa mia. Ci sono molte ragioni di questa impossibilità: l’opacità dei concetti e l’imprecisione strutturale del linguaggio (un linguista non direbbe mai che il linguaggio è impreciso, quindi considerate lo stile divulgativo di questo post). Anche se il concetto nasce dall’esperienza, che voi avete vissuta, pure non avrete mai le parole per comunicarmela. Potete cercare di rappresentarla in modo trasfigurato, dipingendola, esprimendola in versi (che sarà comunque un’altra esperienza) e così qualcuno potrà coglierne parti collegabili alla propria esperienza, ma in generale no; la vostra esperienza diverrà in qualche modo estranea anche a voi stessi, man mano che, con nuove esperienze, i vostri schemi mentali ineluttabilmente muteranno obbligandovi a una re-interpretazione di ciò che eravate.

Alla  fine di questo nostro studio ci rimane da spiegare ancora un’ultima finzione, un’illusione fondamentale. Tutte le “spiegazioni”, tutta la psicologia, tutti i tentativi di comprensione hanno bisogno di aiuti, di teorie, di mitologie, di menzogne; e lo scrittore onesto non dovrebbe fare a meno di risolvere alla fine di ogni suo scritto queste menzogne per quanto sia possibile. Se dico “sopra” e “sotto” faccio un’affermazione che esige una spiegazione, poiché sopra e sotto esistono soltanto nel pensiero, soltanto nell’astrazione. Il mondo non ha né sopra né sotto (Hermann Hesse, Il lupo della steppa).

  1. Qualunque completezza tu possa (ingannandoti) supporre del tuo discorso, non avrà nulla a che fare con la verità. La verità implica un a priori. L’a priori è il punto di riferimento indispensabile per in manifestarsi di una verità, che è quindi un concetto religioso o appartenente a un surrogato di religione, vale a dire un’ideologia laica (poiché il concetto di ‘ideologia’ ha varie connotazioni, per capirne la portata negativa con la quale io lo uso vi prego di riferirvi a questo mio precedente testo). Un corollario di quanto sopra è il seguente: qualunque pretesa di verità o è religiosa o è ideologica. Dire, per esempio: “La democrazia è bene”; “Il lavoro è un diritto”; “Accogliamoli tutti”; è mera ideologia fondata su a-priori impliciti, a meno che non venga – ogni asserto – argomentato e controargomentato. Il fatto stesso di necessitare di un’argomentazione, e di essere passibile di una controargomentazione, rende evidente l’impossibilità di una verità unica, una verità uguale per tutti, da tutti ugualmente compresa e accettata per tale (sul relativismo sociale e l’impossibilità di una verità ho scritto QUI).

Pierre fu colpito dall’infinita varietà degli intelletti umani, la quale fa sì che nessuna verità appaia in modo eguale a due persone diverse (Lev Nikolaevic Tolstoj, Guerra e pace).

  1. Qualunque verità tu possa trovare, non solo può coesistere con la mia diversa verità, ma può benissimo coesistere assieme ad altre tue verità “contraddittorie”. Il dovere di coerenza esiste, obbligatoriamente, solo all’interno di sistemi chiusi (“province di significato”, le chiama Schutz; “giochi linguistici”, li chiama Wittgenstein in altro contesto) che possono esprimere una logica coerente. Ma i nostri schemi mentali sono molteplici, riferiti a contesti e situazioni differenti e – come visto – non coerenti con i vostri, i loro, i nostri di ieri e i nostri di domani. E quindi le nostre “verità” sono composte di frammenti che afferiscono a logiche differenti, non per forza omologhe e – sotto un profilo non pertinente di “coerenza” – eventualmente conflittuali.

Nessuna parte della nostra esperienza è anche a priori. Tutto ciò che vediamo potrebbe anche essere altrimenti. Tutto ciò che possiamo comunque descrivere potrebbe essere altrimenti. Non v’è un ordine a priori delle cose (L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, § 5.634).

Una delle fonti principali della nostra incomprensione è il fatto che non vediamo chiaramente l’uso delle nostre parole (L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, §122).

La certezza è, per così dire, un tono in cui si constata lo stato delle cose: ma dal tono non si conclude di aver ragione (L. Wittgenstein, Della certezza, §30).

Seconda parte: argomentar

  1. I “fatti” non esistono; esistono solo loro rappresentazioni e interpretazioni. Le molestie ad Asia Argento – per fare un esempio – esistono solo perché raccontate e diffuse. Non già perché siano realmente accadute (intendo: a prescindere dalla loro realtà). Non era accaduto per nessuno – tranne due persone – finquando non è stato narrato, narrato in un determinato modo, diffuso comunicativamente in determinati canali, letto, interpretato, ripreso in decine e centinaia di altri autori, a loro volta letti e interpretati da centinaia e migliaia di altri lettori. Il “fatto” è semplicemente evaporato, tramutandosi in mito, archetipo, narrazione corale distonica. Se non si comprende la differenza fra la realtà di un avvenimento e la sua narrazione, e confondiamo la seconda per la prima, continueremo a brancolare come i ciechi di Saramago.

Il bene di un libro sta nell’essere letto. Un libro è fatto di segni che parlano di altri segni, i quali a loro volta parlano delle cose. Senza un occhio che lo legga, un libro reca segni che non producono concetti, e quindi è muto (U. Eco, Il nome della rosa).

  1. E comunque le opinioni non sono nemmeno fatti. Possiamo immaginare che la molestia ad Asia Argento – per rimanere nell’esempio – abbia avuto una sua verità storica, fattuale, a prescindere dal ricordo dei protagonisti e dell’uso delle parole (nel senso di Wittgenstein) che essi ne fanno. Quella realtà storica, probabilmente irraggiungibile salvo avere una macchina del tempo, nulla ha a che fare con ciascuna opinione, descrizione, commento proposti dai protagonisti e da tutti i loro esegeti. Ciascuno di noi (inclusi i protagonisti) ogni volta che racconta o commenta quel fatto, lo fa in relazione al momento, al suo sentire momentaneo, agli interlocutori ai quali si rivolge e alle intenzioni che ha, nel decidere di dire proprio quella cosa e proprio in quel modo, che sarà un modo diverso dal racconto di domani, fatto in un contesto differente ad ascoltatori differenti per una ragione ancora diversa. Non possiamo “cristallizzare” le opinioni, ma osservarle entro il flusso in cui sono collocate e comprendere entro quel flusso. Accade quindi che la stessa narrazione (per esempio le molestie subite da Asia Argento) serva in un caso per scandalizzare e in un altro per ammonire; in un caso come paradigma e in un altro come elemento retorico; in un caso come descrizione e in un altro come spiegazione. Non discernere il contesto e l’uso del discorso comporta l’equivoco sulle intenzioni e la distorsione del messaggio.

“Ma sì! è qui tutto,” pensavo, “in questa sopraffazione. Ciascuno vuole imporre agli altri quel mondo che ha dentro, come se fosse fuori, e che tutti debbano vederlo a suo modo, e che gli altri non possano esservi se non come li vede lui.” Mi ritornavano davanti agli occhi le stupide facce di tutti quei commessi, e seguitavo a pensare: “Ma sì! Ma sì! Che realtà può essere quella che la maggioranza degli uomini riesce a costituire in sé? Misera, labile, incerta. E i sopraffattori, ecco, ne approfittano! o piuttosto, s’illudono di poterne profittare, facendo subire o accettare quel senso e quel valore ch’essi dànno a se stessi, agli altri, alle cose, per modo che tutti vedano e sentano, pensino e parlino a modo loro.” (Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila).

  1. Gli esempi sono trappole. Se, per trattare del concetto di responsabilità individuale, prendo come caso di studio quanto accaduto ad Asia Argento, occorrere che il lettore comprenda quale tipo di relazione c’è fra il concetto astratto di ‘responsabilità’ e la persona di Asia Argento. La relazione non è altro che di natura inferenziale e, precisamente, di carattere abduttivo che, nel caso in questione, suona così: [1 – Questione manifesta presa ad esempio] Asia Argento è stata molestata così e cosà; [2 – Questione implicita che generalizza l’esempio] molte donne subiscono violenze ma, in generale, molte persone le subiscono a causa di rapporti di forza asimmetrici; [3 – Discussione] ci sono persone che cedono e persone che non cedono alla violenza, a seconda delle loro possibilità e a seconda della loro capacità di assunzione di responsabilità; [4 – Prima conclusione, di natura secondaria] chi subisce violenza senza avere possibilità di scelta è una vittima sempre e comunque; [5 – Seconda conclusione, di natura primaria] chi si oppone alla violenza, rinunciando consapevolmente ai benefici, si assume una responsabilità civile ed è un modello da seguire; [6 – Abduzione] se Asia Argento ieri, e altre vittime oggi, combattessero le violenze di un sistema malato, assumendosene chiaramente la responsabilità, vivremmo in un mondo migliore, Asia Argento non sarebbe esule all’estero, e noi non staremmo a fare queste discussioni. Chi esponesse una simile logica, arrivando a conclusioni giuste o sbagliate, avrebbe utilizzato il caso Argento perché eclatante, noto a tutti, simbolico, paradigmatico. Ma sempre un esempio resterebbe. Se la discussione successiva verte solo su Asia Argento, il suo caso, la sua violenza, il suo diritto… si perde il nocciolo della discussione.

(E qui non ho alcuna citazione…)

Ringrazio dal profondo del cuore tutti i lettori e le lettrici (specie le seconde) che hanno commentato il mio articolo su Asia Argento sia nello spazio commenti di questo blog, in quello della nostra fanpage di Facebook o in altre pagine Facebook e su Twitter. La straordinaria differenza di punti di vista, i toni diversi utilizzati, le considerazioni a volte anche drammatiche mi hanno fatto molto riflettere sui processi comunicativi, la formazione delle idee, le relazioni.