L’intellettuale organico nell’Italia del terzo millennio: 4 – L’evaporazione del linguaggio

Potete trovare QUI il prologo di questa riflessione; QUI la parte relativa alla scomparsa del popolo; Qui la parte sulla frammentazione degli intellettuali.

La scomparsa (segmentazione, frammentazione, polverizzazione, dislocazione, migrazione…) del popolo avviene contemporaneamente a quella dell’intellettuale organico, assieme alla scomparsa dei legami forti, assieme alla scomparsa del futuro, assieme alla globalizzazione, assieme al prepotente dilagare del Moloch tecnologico.

Occorre capire che siamo nel mezzo di una transizione storica eccezionale nella quale i temi che stiamo trattando (popolo ed élite) sono da un lato semplici conseguenze e, dall’altro, motori accessori del cambiamento. I protagonisti del cambiamento epocale raramente hanno la consapevolezza di vivere in tale epoca, perché ogni giorno segue all’altro con cambiamenti minimi, spesso non osservati (certamente non osservati dall’Uomo Comune, ammesso che mi permettiate di utilizzare questo cliché); la prima cosa da fare è quindi quella di assumere una prospettiva storica; anche solo della propria storia personale; salvo per i giovanissimi, la comparazione con un paio di decenni fa, tre al massimo, quando i telefonini non c’erano o iniziavano appena a mostrarsi, quando internet non c’era e via discorrendo, è a dir poco travolgente. E non sto parlando di robot, realtà virtuale, cinesi sulla Luna e di tutto il resto. C’è questo stravolgimento alla base dei repentini cambiamenti che si riflettono anche nella società (sua organizzazione) e nella socialità (sue relazioni).

Per proseguire dovrei fare una lunga digressione sul rapporto fra linguaggio e cultura, su come e perché il linguaggio influenzi chiaramente e direttamente il nostro modo di pensare e agire. Il linguaggio è certamente un prodotto culturale, ma ha proprietà peculiari tali da incidere profondamente sulla nostra visione del mondo, sui valori, sui modi di essere, tale che un italiano non potrà se non con difficoltà pensare e agire come un tedesco o un cinese e – se per cultura, viaggi, educazione e altre opportunità – ci riesce, non sarà semplicemente più competente ma più capace di interpretare il mondo rispetto a chi sa parlare solo la propria lingua. 

Anziché fare tale digressione rimando a una “mappa” in fondo a QUESTO articolo, con tutti i link ai testi che vi servono, se ne avrete voglia. In ogni caso proseguirò come se questo tema vi fosse ben chiaro.

La necessaria conseguenza di tutti i discorsi fin qui proposti è la seguente (semplificando, ovvio):

popolo = linguaggio organico = visione del mondo, condivisione di valori;

popolo frammentato = linguaggi frammentati = differenti visioni del mondo, solo parziale condivisione di valori.

Potrei mettere un punto. Non c’è praticamente altro da dire.

Ma poiché suppongo che questo ‘punto’ sia nella mia testa e non necessariamente nella vostra, provo a spiegare meglio.

Immaginate un mondo semplice (mai esistito) dove tutti i bambini crescono educati approssimativamente allo stesso modo, con mamme simili, una società ordinata, una scuola universale… Potrebbe essere un’isola del Pacifico prima dell’arrivo degli occidentali, e sempre mitizzando quel mondo… I bambini – salvo le ovvie caratteristiche personali – cresceranno imparando dagli adulti quali sono le divinità da temere, come comportarsi col capo tribù, come pescare, quando raccogliere i frutti, quali forme di corteggiamento sono ammesse e quali proibite. Diverranno adulti e a loro volta insegneranno ai piccoli, e così generazione dopo generazione il mondo proseguirà in una sorta di cerchio chiuso e immobile. Immaginate ora un ipotetico mondo contadino del Settecento (ancora più ideale e irreale): qui sperimentiamo più linguaggi: quello del signore, quello del vescovo (simile al precedente per certi aspetti), quello del notaio, quello del fabbro, fino a quello del povero bracciante agricolo. Linguaggi differenti ma coerenti, linguaggi che condividono storie e contesti e che sono contigui oppure chiaramente definiti come appartenenti a province di significato differenti e come tali rispettati ancorché non compresi (così i braccianti non capiscono il vescovo, o il notaio, ma sanno che quelle sintassi complesse rinviano comunque a semantiche comuni, semmai con la presenza di una mediazione: il prete, il fabbro che è stato “a servizio” dal signore…).

Arriviamo alla fine dell’Ottocento, primi del Novecento: questa situazione è andata complicandosi notevolmente, la stratificazione sociale è aumentata, e i ruoli, e le dinamiche sociali, e le contaminazioni fra popoli… In particolare con la presa di coscienza (propria di alcuni intellettuali) del divario fra classi, e delle ingiustizie fra classi, può nascere l’idea di un “intellettuale organico” (rimando alla prima puntata) che è in grado di attraversare questa stratificazione, fungendo da “porta” per il popolo (in basso) verso l’azione collettiva contro i borghesi e i capitalisti (in alto). Il cerchio non è più chiuso, si è già spezzato, ma in modo limitato e favorevole per quegli ampliamenti di consapevolezza che aiutano l’intellettuale organico a sviluppare competenze, visioni e linguaggi articolati, buoni per il popolo (al quale aderisce) e buoni per il borghese (col quale vuole interloquire).

La figura che segue aiuta a capire quanto esposto e quanto stiamo per dire. 

Quello che la figura illustra è la crescente complessità sociale: il “cerchio” (Lùkacs) si spezza, l’innocenza si perde… I legami da forti divengono deboli: cosa rimarrà? Il particolarismo si moltiplica grazie alla pluralità di ruoli che ciascuno di noi ormai ricopre. Le tecnologie ci pervadono, protesi per ora esterne, ma domani?

Oggi non c’è UN discorso possibile valevole per una massa, per un popolo. Ci sono tanti linguaggi (tanti valori, tante visioni, tante semantiche) non solo fra il popolo ma entro ciascuno di noi: pur essendo cristiano oggi posso anche votare comunista e non c’è una contraddizione, o non appare, o appartiene a un luogo differente. Posso essere ambientalista ma essere favorevole alla TAV, essere innamorato di mia moglie ma avere un’amante (o anche un amante!), amare il cane e trascurare il figlio, fare volontariato e disprezzare gli immigrati… E il biasimo sociale per questi comportamenti appartiene sempre più a minoranze che scorgono contraddizioni tollerate dai più, e quindi integrate come possibili codici sociali fra i quali attraversare la vita, o la giornata. Nessuno può ricostruire il cerchio e ricondurvi un suo simile, costui sfuggirebbe certamente da qualche parte… Dentro ciascuno di noi, quindi, iniziano con sempre maggiore evidenza a convivere una sola sintassi ma molteplici semantiche (e pragmatiche, il che è fondamentale ma mi complicherebbe l’esposizione). Ma se – come detto – le parole sono segni connotati di valori, ciò significa che ciascuno di noi diventa, sta diventando, è diventato, un groviglio di valori, visioni, sentimenti e modalità di azione conseguenti, di carattere contingente. Qui sono così, là in un altro modo, domani ancora diverso con te e in un altro modo con altri.

La conclusione – viene da sé – è che gli intellettuali, oggetti della medesima complessità, non hanno più un interlocutore e non hanno più un linguaggio (non hanno più un “cerchio” inclusivo di valori e visioni coerenti da proporre a individui disponibili a entrarvi definitivamente dentro).

La situazione è questa. Non si può “contrastare”; non basterebbe una scuola migliore, un governo migliore, un liberismo meno crudele, una Cina più vicina, un’Europa più unita o quello che vi pare. Non c’entra nulla. 

La pars construens è davvero difficile: questa fase è temporanea, definitiva (su un periodo almeno medio, ché di definitivo non c’è nulla), in corso di ulteriore accentuazione? Chi può dirlo? Il mio personale punto di vista è che – alla luce della genesi del fenomeno – non possa che accentuarsi nei prossimi anni, ma lo vedrà chi ci sarà. Che possa essere una fase turbolenta che ci porta a una nuova età del miele non posso crederlo, anche se sono invitato da alcuni amici a strappare un po’ di ottimismo da non saprei dove. Nel mio fòro interiore mi sento razionalmente, sociologicamente, logicamente pessimista, ma so bene che sono preceduto da legioni di vecchi astiosi incapaci di vedere il futuro migliore…

Non potendo che fare i conti col mio pessimismo, quindi, occorre chiudere il discorso e pensare quali conseguenze politiche, oltre che sociali, tutto ciò comporti. Poiché scrivo per persone pazienti, dovrete comunque attendere la prossima e ultima puntata.