L’intellettuale organico nell’Italia del terzo millennio: 3 – Wikipedia contro gli intellettuali

Nel primo post di questa serie ho proposto la tesi di una frattura radicale e decisiva fra popolo e intellettuali, e l’impossibilità di un “intellettuale organico” gramsciano. Nel secondo, invece, ho descritto la molteplicità di fratture in seno al popolo, tali da escludere uno dei due termini fondamentali della relazione.

Ora è il momento del secondo termine – ‘intellettuali’ – per verificare cosa resti della possibilità di una comunicazione, di una relazione, di un contatto funzionale. Anticipo la risposta: nulla; non resta nulla.

Analogamente alla polverizzazione del “popolo” si assiste alla crescente opacità degli “intellettuali”. Al di là della definizione più o meno condivisibile (io ho proposto la mia, molto ampia e inclusiva, nel primo post di questa serie), in sintesi 

l’intellettuale è una persona che sa argomentare.

L’argomentazione – opposta all’assertività – è la chiave, la natura, l’essenza e il destino dell’intellettuale (sull’argomentazione si veda QUI). Il non intellettuale dice, là dove l’intellettuale spiega; il non intellettuale dichiara, là dove l’intellettuale precisa; il primo è certo e il secondo dubbioso; il primo è spesso causale laddove il secondo è fuzzy; il primo usa parole e il secondo si balocca con concetti; il primo agisce sul piano sintattico e pragmatico mentre il secondo si perde nella semantica e nell’ermeneutica. Il primo è un pratico; il secondo un noioso, un cavilloso, presuntuoso, poco comprensibile… Non stupisce che sempre, nella storia, ci sia stata una forte diffidenza del primo verso il secondo. Perché il secondo ha sempre avuto il potere.

I mandarini cinesi, gli scriba egizi, i sacerdoti inca e poi quelli cristiani, gli azzeccagarbugli che conoscevano quella birberia (Manzoni) del leggere e dello scrivere, gli avvocati che ti raggirano, i politici che ti imbrogliano…

Lo strumento del potere è sempre stato la parola.

Gli sciamani usano la parola per misteriosi riti che li portano diritti nel cuore degli dei, e vanno temuti per questo; attenzione a quello che desideri che si può avverare; a una mala parola si deve reagire con appropriati scongiuri per neutralizzarla; all’inizio era il Verbo… se Dio ha avuto la primazia della parola, e se la parola costituisce il fulcro della liturgia, la piccola scimmia ha poi imparato a parlare e a scrivere. Maledetto Gutenberg! Sapere leggere e scrivere ha rappresentato per secoli, per millenni, la linea spartiacque fra popolo e proto-intellettuali, sostanzialmente religiosi, e poi laici borghesi. Nel Novecento studiare era per pochi, per i figli dei dottori, per i figli dei “padroni”… Occorreva il tradimento di classe per trovare degli intellettuali (quelli che Gramsci chiamerà ‘organici’) disponibili a sposare la causa del popolo; Gramsci è figlio di piccola borghesia con avi di un certo peso; Don Milani proviene da una famiglia di possidenti; per non parlare di Marx, Engels, Lenin (in misura minore Mao)… E chi non partì da una base familiare favorevole si distinse per volontà e furore della determinazione allo studio. 

Nel Novecento il dottore era “il signor Dottore”, la maestra era “la signora maestra”, i fisici si conoscevano tutti per nome perché erano quattro gatti, i letterati vincevano i Nobel (Carducci, Deledda, Pirandello, Quasimodo, Montale. Escludo Fo, che non fa parte del secolo breve), la classe operaia doveva e voleva emanciparsi anche attraverso lo studio (le sezioni di partito, gli Editori Riuniti, la diffusione domenicale dell’Unità…), la scuola divenne universalista… che meravigliosa stagione!

Oggi il mondo è ribaltato.

Scuola sfasciata, Università allo sbando, pochi fondi alla ricerca (parlo dell’Italia ovviamente); pletore di pseudo laureati, destinati a lavorare nei call center e nelle cooperative sociali, che a stento conoscono ortografia e grammatica; ricerche, tesine e dissertazioni come patchwork scriteriati di brani trovati su Wikipedia; il notissimo fenomeno delle opinioni equiparate a competenze; i docenti aggrediti nelle scuole; l’irrefrenabile profusione di pareri che tutti danno su tutto grazie ai social…

Quando l’on. Castelli apostrofa Padoan col celebre “questo lo dice lei”, non manifesta l’imbarazzo dell’ignorante nell’ultima disperata difesa contro il dotto (il negare la verità, tipica di chi ha le spalle al muro), ma l’autentica convinzione che Padoan sia un portatore di vaghe convinzioni, evidentemente viziate dal fatto di essere un disonesto partigiano di schieramento avverso, che possono essere contrastate con una legittima negazione da parte di chi – come Castelli in questo specifico caso – appartiene ad altro schieramento, segnatamente quello degli eticamente giusti.

La chiave per comprendere il ribaltamento in atto è qui: nei margini simbolici del Secolo Breve l’ignorante, per quanto arrogante, e presuntuoso, e ideologizzato, sapeva di essere tale perché riconosceva (riconosceva = vedeva, identificava la distanza, percepiva i diversi universi simbolici) il dotto. E del dotto “organico” (= partecipe della sua condizione, empatico con le sue sofferenze, schierato apertamente al suo fianco) sapeva di potersi fidare; il dotto – estendendo: l’intellettuale – diventava un alleat*, uno o una da cui apprendere.

Tutto finito.

Una delle tragedie del populismo, nella sua esaltazione truffaldina del popolo, è l’alimentazione della frattura fra popolo e intellettuali con la doppia mossa dell’annullamento della qualità del sapere dei secondi, e l’esaltazione delle virtù dei primi.

Quella del Novecento era una distanza, in teoria colmabile; nel Terzo Millennio una frattura, incolmabile. Nel Novecento c’era comunque riconoscimento; nel Terzo Millennio disconoscimento. L’esaltazione che del popolo faceva la retorica marxista, e i suoi intellettuali organici, era una esaltazione etica, non sapienziale. Il popolo nella sua stoicità, nella sua sofferenza, nella sua capacità anche di nobili gesti (poi arriva anche la retorica della Resistenza e il cerchio è perfetto!); è questa stoicità che l’intellettuale ammira, è questa sofferenza che anche lui empatisce (sul fatto che sia un’empatia molto cristiana dovremmo aprire una digressione ora impossibile). L’esaltazione che ne fa il populismo del Terzo Millennio è retorica degli uguali, di un’uguaglianza stravolta in egualitarismo, di un sapere che è (sembra) diventato gratuito grazie alle tecnologie, dove in frazioni di secondo possiamo ugualmente sapere chi arrivò secondo al Festival di Sanremo del 1989 e cosa sia – in una vulgata vagamente comprensibile – il bosone di Higgs. E che sia solo “vagamente comprensibile” è più che sufficiente per una relazione scopiazzata, per una battuta sui social, per un blog di second’ordine (mai per HR, ci mancherebbe altro!). A quel punto, se la Rete è la nuova università popolare del Terzo Millennio, dove trovi sempre non già una risposta, ma proprio quella che si attaglia al tuo pre-sapere, cosa ci interessa del pensiero del colto, dell’intellettuale? Intellettuale chi? Dotto in che senso? Laureato embé! Esperto sticazzi!

Questa onda populista sta travolgendo anche gli intellettuali.

Quelli grondanti anni di studio e di esperienze conquistate coll’ingegno, coll’umiltà del voler conoscere, con la costanza del voler capire, sono in via di commiato per ragioni anagrafiche; i pochi testimoni che ancora vivono sono vecchi, bolsi, non telegenici, barbosi, soporiferi; parlano un linguaggio involuto, pieno di precisazioni, di note, di digressioni; usano un lessico articolato e poco comprensibile; fanno riferimento a saperi ed esperienze che sono, storicamente, di 30, 50 anni fa, ma antropologicamente di ere geologiche sprofondate sotto l’asteroide, assieme ai dinosauri. Difficile, per i “nuovi”, subire quel fascino. Nell’Università, come docenti, si accede ormai con logiche CEPU; e fare i docenti universitari, oggi, equivale a prendere l’aperitivo con gli amici (so esattamente quello che dico), salvo che non siate ammiratori dei vecchi e obsoleti modelli di sapere elitario… soggetti destinati a una vita difficile e solitaria. Oggi i nostri intellettuali di punta scrivono boiate sesquipedali sul Fatto Quotidiano e scrivono libri come fossero post su Facebook; alcuni esempi eclatanti li abbiamo denunciati su queste pagine (QUI, QUI e QUI) e non ci tornerò sopra. Poiché la moneta cattiva scaccia quella buona, non è solo l’ignorantissima onorevole Castelli a zittire Padoan, ma un Fusaro qualunque a discettare, sproloquiare, ammonire come un novello Benedetto Croce incolto ma adulato.

Dove trovare, oggi, un intellettuale nuovo, organico non già a una classe (abbiamo visto nella precedente puntata che non è più possibile) ma almeno al suo tempo, a questo Terzo Millennio? “Organico” non già nel senso deteriore di adattato, conforme, omologato (abbiamo già detto – nella prima puntata – che costui c’è: si chiama Salvini…), ma critico, vigile, capace di annunciare un nuovo orizzonte, fedele ed empatico al tempo, non già ai suoi abitatori, capace di guidare verso un obiettivo non necessariamente popolare, capace di schierarsi contro… il popolo stesso?

Ecco: il nuovo intellettuale organico (ma ormai ho talmente stravolto quell’aggettivo che sarebbe meglio abolirlo, chissà?) non è tale (o: non sarà tale) perché saprà affiancare la classe degli oppressi contro i padroni, ma perché saprà evitare l’omologazione 2.0 e indicare una strada, che non sarà necessariamente quella del popolo.