La guerra alle donne in Medio Oriente. Una bibliografia

Premessa

La lotta delle donne iraniane di questi giorni mi commuove e mi indigna. Mi commuove per la tragica oppressione di milioni di donne nel mondo islamico, e mi indigna per la barbarie di un potere teocratico maschilista inaccettabile. 

Il dibattito occidentale, negli anni, è diventato molto ambiguo su questa materia. Se i barbuti talebani, o i satrapi arabi, sono riconosciuti genericamente come oppressori dei loro popoli, il discorso sulla guerra alle donne si è fatto ricco di distinzioni ipocrite, di sofismi ideologici fondati generalmente sull’irreale attribuzione di intellettualismi occidentali alla dura realtà delle donne islamiche. Diventa difficile districarsi nella innumerevole letteratura in argomento, dove è facile trovare eruditi saggi che discettano su come, per esempio, il velo sia una libera scelta delle donne, di come la situazione nell’Islam vada migliorando, sia pure lentamente, e così via. Queste autrici e questi autori dovrebbero andare in Iran o in Afghanistan in questi giorni, in Yemen, in Arabia Saudita, e occuparsi meno dell’importanza della schwa nella conquista della parità di genere e più sui fondamenti su cui poggia il terrorismo teocratico di una bella fetta di mondo.

È assolutamente chiaro che trattando questo tema non entra in gioco alcun corretto relativismo culturale; che non c’entra l’autodeterminazione femminile e la libera scelta del velo; che il velo (per limitarsi al simbolo più evidente) non è un precetto religioso ma un’imposizione patriarcale maschilista che usa un’interpretazione dei testi religiosi per uso dispotico; che qualunque potere assoluto è il male, ma quello teocratico diventa male assoluto.

Bibliografia

Su questi temi trovate una marea di informazioni su Internet ma, come ho scritto, può essere difficile trovare i testi “giusti”, liberi da ideologismi preconcetti, liberi dalla stupida applicazione di concetti liberali occidentali a realtà distanti mille miglia, e mille anni, dalle persone che subiscono il dramma quotidiano di essere nate donne in una società di maschi repressi. Io ho selezionato otto titoli; che sono una mia scelta, e quindi sono limitati, orientati da un’idea, parziali. Ho cercato pochi testi giornalistici (ma di testimoni in prima persona) a favore di quelli accademici; ho cercato in particolare quelli di donne musulmane (generalmente riparate in Occidente) che conoscono bene ciò di cui parlano.

Buona lettura.


La giornalista polemizza contro Laura Mentasti del manifesto, che avrebbe perorato l’idea del velo come volontà femminile di riscatto. Scrive Sgrena: “se fosse un simbolo del riscatto delle donne perché dovrebbero essere i maschi a imporlo?”; “Peraltro i movimenti islamisti che vogliono distruggere anche quelle poche conquiste fatte dalle donne nei paesi musulmani parlano di reislamizzazione contro la permissività di un islam tollerante. Non si tratta né di religione in senso stretto né di tradizione, ma di un movimento politico che si fa scudo della religione per imporre una teocrazia, un califfato dove vige l’intolleranza verso il diverso, verso la differenza anche, e soprattutto, di genere. Il velo assume quindi un valore simbolico perché deve cancellare questa differenza, relegando la donna alla sfera privata. Il velo sancisce la separazione tra il pubblico e il privato, tra l’esterno e l’interno, l’esclusione della donna, simbolizza la segregazione dei sessi, che può spingersi agli estremi con il burqa imposto dai taleban, ma che risponde comunque sempre allo stesso principio. Il velo è il simbolo del controllo della sessualità della donna che raggiunge la sua massima aberrazione nella mutilazione genitale. Il velo – e non a caso il termine arabo hidjab, secondo l’Enciclopedia dell’islam, vuol dire membrana che protegge una parte del corpo, imene, per l’appunto – viene imposto alla donna dopo la prima mestruazione e deve essere portato sempre tranne che in presenza dei maschi di famiglia con i quali un rapporto sessuale rappresenterebbe un incesto. Per questo, altrettanto simbolicamente, il rifiuto del velo assume un carattere emancipatorio, di progresso e modernizzazione. Una modernizzazione della società che passa attraverso la secolarizzazione.” Su Hic Rhodus abbiamo parlato di velo islamico QUI e QUI.

L’autore, giurista all’Università La Sapienza, ripercorre le molestie di massa subite a Colonia e numerose altre città europee nel Capodanno 2015 ad opera principalmente di immigrati islamici. Di questi fatti abbiamo scritto anche su Hic Rhodus (QUI e QUI). Citando anche fonti progressiste islamiche l’Autore sostiene che questi episodi non sono stati casuali, ma appartengono alla cultura maschilista islamica; citando l’attivista Mina Ahadi, per esempio: “Quello dell’aggressione sistematica alle donne è un tratto tipico di alcuni paesi cosiddetti musulmani, io in prima persona lo posso testimoniare come iraniana. […] Nei paesi islamici le donne hanno paura ad andare in giro, perché la donna è proprietà dell’uomo, che ne può avere diverse e deve proteggere le proprie, esattamente come si difende una proprietà privata. Le donne che non “appartengono” a nessuno – quelle che per esempio vanno in giro per strada non accompagnate – sono alla mercé degli altri uomini. Certo, non è un tratto distintivo esclusivamente del mondo musulmano: gli estremisti di destra che dopo i fatti di Colonia sono scesi in piazza urlando “proteggiamo le nostre donne” mostrano un’analoga forma mentis. Ma questo non ci autorizza a mistificare quel che è successo quella notte”. L’autore, poi, ricordando vari episodi di violenza che hanno attraversato diversi paesi europei negli anni, coinvolgendo principalmente nord africani, segnala come la spiegazione socio-economica (deprivazione, povertà) non sia una chiave di lettura sufficiente, e che la chiave interpretativa per comprendere, per esempio, il fenomeno delle banlieu sia anche, necessariamente, quella religiosa, e che la messa in atto di aggressioni, anche sessuali, è un modo per umiliare un occidente percepito come oggetto estraneo alla propria identità culturale. Il saggio è molto lungo e documentato, tratta anche altri aspetti di questo tema.

Un punto di vista femminista e di sinistra che spiega con chiarezza come l’idea del velo non sia, e non possa essere considerata, una libera scelta delle donne. “Se sul burka lo sdegno è quasi unanime quando invece si tratta del ‘semplice’ velo si aprono i varchi al distinguo, entrando nel paludoso terreno della ‘libertà di scelta’, una forma di religione diffusa soprattutto nel mondo laico che indietreggia di fronte al conflitto e all’esercizio del pensiero critico sui alcuni temi, definiti da un decennio ‘divisivi’, come appunto il velo, (che tra i simboli religiosi è l’unico che norma il corpo delle donne e quindi di conseguenza la relazione tra i sessi). […] Quando si tocca l’islam e se si apre il conflitto su velo, burkini, e hijab ecco irrompere lo stigma dell’islamofobia e l’accusa, nel mondo progressista e di sinistra, di sostenere il razzismo e le politiche anti migratorie della destra. […] se la copertura islamica è definita una uniforme si legittima un orizzonte di pensiero e di pratiche di stampo relativista che equipara, nel nome della libertà di scelta, la sottomissione e la segregazione di un sesso rispetto all’altro su base religiosa, con buona pace della laicità dello stato e dei diritti umani universali: diventa quasi surreale sostenere che i diritti delle donne sono universali, che la loro presenza segna e determina il grado di civiltà della società, se poi si tentenna nell’aprire il conflitto con chi porta nello spazio pubblico l’unico simbolo religioso che sottolinea, mortificandolo, il corpo femminile quale anticamera del peccato e della sessualità.”

L’autrice è psicoanalista e insegna all’Università Diderot di Parigi. Il suo testo, estremamente dotto e ricco di citazioni sia di natura psicoanalitica che relative ai testi islamici (Corano etc.) riesce a essere estremamente chiaro sulle origini del maschilismo patriarcale, violento e senza appelli, dell’Islam. L’Autrice mostra il fondamento giuridico dell’inferiorità delle donne nell’Islam nella necessità di giustificare i comportamenti di Maometto e delle guerre alla sua epoca perpetrate, in cui il commercio delle donne e il loro abuso era una condizione comune. “La maggior parte degli hadith sarà attribuita ad Aisha, che gli agiografi chiameranno “la Memoria dei musulmani”. Ella reciterà per i posteri: “Le vostre spose sono per voi come un campo da arare. Venite pure al vostro campo come volete” (Corano 2:223), oppure: “Sposate (inkahû) allora due o tre o quattro tra le donne che vi piacciono” (Corano 4:3; il termine arabo inkahû significa “accoppiatevi”, “possedete carnalmente”), o ancora: “Se sono insubordinate, relegatele in camere a parte e battetele”. (Corano 4:34). “Nel suo grande commentario al Corano – fonte per noi importantissima – Tabarî propone una graduatoria di questa tassonomia del castigo: prima le reprimende, poi l’abbandono (“relegatele in camere a parte”), e infine le percosse, se persistono nella disobbedienza. A chi? A Dio e ai loro mariti, risponde Tabarî. Man mano che procede nella lettura dei commentari, si resta colpiti dalla perorazione in favore di “un’arte quantitativa della sofferenza” (l’espressione è di Michel Foucault). In questa tassonomia del castigo, l’uomo sceglie quella che considera “la più grande delle umiliazioni”, cioè possedere carnalmente la donna in un mutismo voluto e assoluto; stuprarla, insomma. […] L’Islam ha instaurato un mondo gerarchizzato che riceve le sue leggi dall’alto. Il religioso ha istituito una preminenza maschile, e questa ha fondato il politico sacro: un sacro che si oppone a ogni lavoro di pensiero. Nell’intento di preservare la dominazione maschile, i testi avallano non soltanto l’idea della donna come oggetto di scambio, ma l’annullamento della struttura-Altrui, per usare un’espressione di Deleuze. I testi degli agiografi diventano così il Testo del pensiero politico islamico, e costituiscono l’humus concettuale che ha permesso l’esclusione della donna da tutti i dispositivi che consentano l’autonomia o l’emancipazione. Per tradurre il tutto nella nostra terminologia odierna, la contestazione di Gabriele (e quindi le leggi del cielo), aveva di mira, in primo luogo, la donna come essere di diritto.

L’autrice è una filosofa femminista, laureata al Cairo e attualmente attiva all’Università della Georgia, USA. In questo testo prende in considerazione quattro punti di vista differenti sul velo, sia di parte islamica che occidentale, per concludere che “the veil in the Islamic world is not a free choice, which mainly disputes against the Islamic feminism and both types of the western feminism”.

La storia del velo in Iran, con l’avvento di Khomeini, e la protesta delle donne: “In 1983, the hijab became compulsory for all women. But the government had already made it impossible for unveiled women to keep their government jobs or even to set foot in government offices. Women who defied the rule, even before it was the law of the land, risked having acid thrown on them or being beaten, flogged, arrested, fined, humiliated, or fired from their jobs. The state’s extreme violence succeeded in forcing all women to veil.” “That the daughters of the Islamic revolution have focused on fighting the mandatory veil is not surprising. It is a sign of the increasing prevalence of liberal-democratic principles in the new political culture of Iran. The women who protested against the mandatory veil in 1979 were abandoned by political groups and parties, because at the time those who controlled the political discourse did not believe in women’s free choice—a glaring indication of illiberal culture in revolutionary Iran.”

La situazione in Afghanistan è ancora peggiore di quella in Iran; tutti i diritti delle donne sono stati aboliti, la violenza contro le donne è diventata intollerabile e il regime, oltre a obbligarle al velo integrale, le invita esplicitamente a non uscire di casa. “The Taliban say the decrees is based on Islam although the vast majority of Muslims — outside Iran and Saudi Arabia — do not follow the type of dress code the Taliban are prescribing for Afghan women. Given that Afghanistan is an overwhelmingly Muslim, traditional and patriarchal society, a significant number of conservative Afghan men will not object to the Taliban’s decision. The Taliban are reinforcing Afghanistan’s patriarchal system, where men decide for and on behalf of women. The order legitimizes men’s control over women and the humiliation of women in public, paving the way for increased domestic violence, harassment and oppression of Afghan women and girls. Further, the decree gives ammunition to conservative Afghan men who aim to prevent women from exercising their right to participate in public life. It essentially encourages harassment and oppression of women and girls. Fundamentally, it shows that the Taliban’s policies concerning women have not changed.”

Uno studio epidemiologico sulla sessualità dei giovani islamici in Olanda, mostra un concetto ristretto e peccaminoso della sessualità ma anche come non basti la parola di un Imam di vedute aperte a far loro cambiare idea.