Da poco è stato pubblicato il rapporto OCSE Science, Technology and Industry Outlook 2014, che presenta una fotografia estremamente dettagliata dello stato della ricerca e dell’innovazione tecnologica a livello mondiale. Dato che si tratta di un argomento che sta molto a cuore a Hic Rhodus, vi proponiamo alcune delle evidenze che contiene, insieme ovviamente alle nostre considerazioni.
Innanzitutto, premettiamo che il rapporto è assai lungo (480 pagine) e che quindi non tenteremo di riassumerlo, preferendo estrarne alcuni dati e fatti che, come vedremo, compongono un quadro abbastanza poco incoraggiante per quanto riguarda il nostro Paese e la sua lungimiranza nell’investire in conoscenza.
Cominciamo col dire che il periodo (principalmente 2008-2012) su cui il rapporto si concentra è stato segnato, più o meno in tutto il mondo, dalla crisi economica globale. Quindi, in un certo senso, quello che il rapporto offre è un panorama di come i diversi paesi hanno reagito alla crisi in particolare relativamente alla loro capacità di investire nella ricerca e nell’innovazione. Il rapporto prende in considerazione sia gli investimenti pubblici che quelli delle imprese, secondo un modello “triangolare” che vede lo sforzo complessivo nella ricerca come frutto della cooperazione delle politiche governative, dei poli pubblici di ricerca e del sistema delle imprese che investono in R&D.
Quindi, il primo messaggio è che la ricerca (in particolare quella applicata) è il principale strumento per incrementare produttività e competitività. Nonostante le difficoltà imposte dalla crisi, e i conseguenti tagli alla spesa pubblica in molti paesi, la maggioranza dei governi ha cercato di non abbattere la spesa in questo settore strategico, in particolare nelle fasi di maggiore crisi del settore privato. Questa tendenza è illustrata efficacemente nel diagramma qui sotto:

Come si vede, complessivamente mentre la spesa in R&D delle aziende private ha seguito la curva dell’andamento del PIL, con un calo accentuato nel 2009 e poi una ripresa sull’onda del miglioramento globale dell’economia negli ultimi anni, la spesa pubblica ha seguito un andamento anticiclico, continuando a crescere in tutto il periodo, e con un tasso maggiore proprio nel momento di recessione più profonda, e se oggi, specie nei paesi occidentali, comincia a calare, ha avuto l’effetto di sostenere il settore nel momento di massima crisi. Per l’Italia, però, questo non è vero: nel quinquennio 2007-2011 la spesa pubblica in ricerca è costantemente diminuita, e nel 2011 era appena lo 0,54% del PIL, mentre la spesa complessiva nazionale in R&D nel 2012 era l’1,27% del PIL, circa la metà della media OCSE.
In realtà, anche molte imprese, nei limiti del possibile, hanno tentato di reagire all’erosione dei loro margini di profitto investendo in R&D. Non quelle italiane, naturalmente; qui sotto vediamo un interessante grafico che evidenzia le diverse strategie adottate dalle imprese nei paesi OCSE:

Il grafico, che confronta le variazioni dei profitti e degli investimenti in ricerca del settore privato, non è di immediata lettura, ma sostanzialmente divide i paesi in tre categorie:
- Quelli le cui imprese hanno visto un recupero di profitti e hanno ridotto gli investimenti in ricerca (come gli USA);
- Quelli le cui imprese hanno visto un calo dei profitti e hanno aumentato gli investimenti (come la maggioranza dei paesi UE);
- Quelli le cui imprese hanno visto un calo dei profitti e hanno ridotto gli investimenti (tra cui l’Italia, appunto, ma anche UK).
Insomma, la maggioranza delle imprese in Europa cerca di contrastare gli effetti della crisi investendo in know-how, mentre dove ci sono segni di ripresa le imprese riducono gli investimenti, evidentemente per riequilibrare i bilanci.
Infine, dedichiamo un breve cenno alla scheda che il rapporto dedica specificamente all’Italia. Tra i vari indicatori e valutazioni riportati, quelli più interessanti riguardano la carenza di competenze avanzate: l’Italia ha un bassissimo tasso di laureati sulla popolazione, il know-how medio della popolazione adulta relativamente alla tecnologia è modesto, la composizione demografica della popolazione vede una penuria di giovani, e peraltro i giovani qualificati sono spesso attratti da occasioni di perfezionamento e di lavoro all’estero. Insomma, il Bel Paese non investe in conoscenza.
Quali conclusioni possiamo trarre da questo breve excursus? Vi propongo qualche considerazione, e vi invito a contribuire con dei vostri commenti:
- La ricerca e l’innovazione scientifica, tecnologica, di prodotto e di processo sono essenziali per l’economia di qualsiasi paese, e in particolare dell’Italia che non dispone di risorse naturali o vantaggi competitivi strutturali. La competitività, nelle nostre condizioni, deve passare da un riposizionamento delle imprese verso prodotti di eccellenza, come abbiamo già discusso, e questo è impossibile senza innovazione.
- Gli investimenti in R&D, sia pubblici che privati, sono gravemente insufficienti a questo scopo, e per di più mostrano un andamento declinante.
- L’emorragia di giovani qualificati (ne abbiamo parlato qui) e la cronica penuria di laureati ad alta specializzazione in Italia è una delle debolezze strutturali del paese, e non solo in campo economico ma anche semplicemente civico (ne abbiamo parlato a proposito della scuola e anche delle nuove competenze sulle tecnologie).
Infine: non c’è proprio nessuna speranza? A mio avviso, qualche timido segno del fatto che l’Italia potrebbe nonostante tutto riuscire a invertire questa china c’è:
- Dallo stesso rapporto dell’OCSE emerge che, pur in questa carestia di risorse, i nostri ricercatori riescono a stabilire buone collaborazioni con i colleghi esteri. Il diagramma qui sotto riporta graficamente la rete di collaborazioni che emerge dalle pubblicazioni scientifiche, e l’Italia ha una posizione almeno dignitosa:

- I nostri migliori ricercatori sono abituati a far “nozze con i fichi secchi”, e a ottenere singoli risultati di valore anche grazie alle collaborazioni di cui sopra (ne abbiamo parlato a proposito di Fabiola Gianotti). Certo, poi spesso preferiscono lavorare in centri di ricerca all’estero con fondi ben più alti.
- Siamo abbastanza in buona posizione in alcuni campi di ricerca con prospettive interessanti, come quello delle tecnologie “verdi”.
- Abbiamo una discreta capacità imprenditoriale anche nel campo delle startup tecnologiche, nonostante gli svantaggi strutturali di cui abbiamo discusso (ne abbiamo parlato recentemente).
Insomma, io credo che l’Italia non sia in grado di essere un paese leader nella ricerca, ma che possa, con investimenti forse non massicci ma correttamente diretti, ottenere dalla ricerca l’impulso che le occorre per innovare il proprio modello di produzione e dei servizi, e lasciare che poi sia il talento dei singoli a fare la differenza. Oggi tra i paesi che investono di più nella ricerca ci sono Cina e Corea, che una volta erano considerati semplici “replicatori” dei prodotti sviluppati in occidente; sta a noi riuscire a investire in conoscenza e capacità di innovazione quel tanto che consenta alle nostre qualità di imprenditorialità e creatività di portare sul mercato prodotti nuovi e unici.