Il Piano di contrasto alla Povertà: una misura seria o uno specchietto per le allodole?

spiccioliPochi giorni fa, il Ministro del Welfare Poletti ha commentato in questo modo la recente approvazione del Piano di contrasto alla povertà da parte del Governo: finalmente anche in Italia abbiamo “un istituto unico nazionale a carattere universale per sostenere le persone in condizione di povertà”. Ma la misura approvata, e che di cui il Parlamento dovrà poi varare il decreto attuativo, ha le caratteristiche per essere davvero efficace? Ed è forse un passo nella direzione del “reddito di cittadinanza” invocato dal Movimento Cinque Stelle? Vediamo.

Cominciamo col dire che in Italia un problema di povertà esiste. Ne abbiamo parlato più volte qui su Hic Rhodus, a proposito sia dell’incidenza della povertà anche tra chi ha un lavoro, sia delle proposte politiche sul reddito minimo e delle loro lacune, sia della difficoltà di “mirare” adeguatamente gli interventi di sostegno ai poveri, che spesso rimangono esclusi dai benefici proprio dei provvedimenti che nominalmente sarebbero fatti per aiutarli. Viene quindi naturale chiedersi se questa nuovo “ritrovato” rappresenti una soluzione concreta al problema della povertà almeno per la fascia più debole dei cittadini, e in che relazione sia con le proposte che nel corso del tempo sono state avanzate da diversi soggetti, tra cui (ma non solo) il M5S.

Punto primo: chi ne beneficerà? Secondo l’ultima rilevazione Istat, in Italia ci sarebbero poco più di quattro milioni di persone in condizioni di povertà assoluta, il che significa che la loro capacità di spesa (non il loro reddito) è inferiore alla soglia che consente un tenore di vita accettabile. Questa soglia dipende dal luogo di residenza e dal numero di componenti della famiglia di appartenenza, visto che la condizione di povertà si valuta per il nucleo familiare nel suo complesso. Di questa platea di poveri “veri”, secondo il ministro Poletti i beneficiari del provvedimento saranno un milione. In particolare, saranno escluse le famiglie senza figli minori.
Naturalmente, non accontentandoci del Comunicato Stampa diffuso dal Consiglio dei Ministri, abbiamo preferito leggere il testo del Disegno di Legge Delega che dovrebbe appunto conferire al Governo la possibilità di emanare le norme relative a questa forma di assistenza. Devo dire che nel testo la questione mi è decisamente meno chiara, forse per la mia refrattarietà al linguaggio tipico di questi testi di legge, che annunciano una legge futura facendo riferimento a leggi passate. Più in dettaglio:

  • i quattrini disponibili, almeno nel 2016, per questi sussidi sono quelli previsti dalla Legge di Stabilità 2016, all’art. 1, comma 386 (sic). Quel comma istituisce il “«Fondo per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale», al quale sono assegnate le risorse di 600 milioni di euro per l’anno 2016 e di 1.000 milioni di euro a decorrere dall’anno 2017”. Quindi, dato che il 2017 è lontano e non mi sentirei di fare previsioni sullo stato delle finanze pubbliche, ragioniamo sulla base di una disponibilità concreta complessiva di 600 milioni di Euro. Chi avrà diritto a ricevere un sussidio, e a quanto ammonterà?
  • i destinatari di questi benefici non sono così chiaramente individuabili nelle famiglie con figli minori, come dice Poletti, e con lui i nostri giornali. Il decreto infatti dice che si tratterà di un “sostegno economico condizionato all’adesione a un progetto personalizzato di attivazione e inclusione sociale e lavorativa” (sottolineatura mia); in un comma successivo, si aggiunge che il Piano predisposto dal Governo dovrà prevedere “una graduale estensione dei beneficiari e incremento del beneficio, a partire prioritariamente dai nuclei familiari con figli minorenni, e, quindi, dai soggetti con maggiori difficoltà di inserimento e ricollocazione sul mercato del lavoro”. Sembrerebbe, insomma, che l’obiettivo primario del beneficio sia fungere da “ponte” in una fase di inserimento o reinserimento lavorativo, e non sostenere in modo strutturale le famiglie numerose in stato di povertà. A rigore, la presenza di figli minorenni è un criterio previsto per la futura estensione del beneficio, e non per quello che sarà erogato nel 2016, anche se naturalmente nulla vieta che il Governo tenga conto di questo parametro fin da subito.
  • quanto all’ammontare del sussidio, anch’esso non è specificato nel testo della legge. Secondo quanto il Ministero ha fatto sapere, si tratterebbe di 320 Euro al mese, 3.840 l’anno (come termine di raffronto, per una famiglia con due figli minori di età diverse che viva, poniamo, a Roma, la soglia di povertà assoluta si colloca intorno ai 1580 Euro di spesa mensile. Ma, calcolatrice alla mano, 3.840 per 280.000 fa circa un miliardo di Euro l’anno, ossia la cifra che corrisponde allo stanziamento previsto per il 2017, e non ai famosi 600 milioni del 2016. Quest’anno, quindi, presumendo che la cifra non possa essere più bassa di così, a “godere” di questo sussidio saranno molte meno di 280.000 famiglie, diciamo poco più di 150.000, poco più del 10% di quelle in condizioni di povertà assoluta.

Tiriamo quindi un attimo le somme: a “bocce ferme”, ossia nel 2016 con le risorse già stanziate, il sussidio riguarderebbe poco più del 10% delle famiglie in povertà assoluta, e ammonterebbe a 320 Euro al mese. Come termine di raffronto, parlando di famiglie con figli minori, la soglia di spesa mensile corrispondente alla soglia di povertà assoluta, per una coppia con due figli di otto e dodici anni che viva a Roma, è di 1.569 Euro. Il sussidio coprirebbe insomma circa il 20% di questo livello di spesa, che secondo i dati Istat è circa pari alla distanza media di una famiglia “povera” dal livello minimo di spesa (circa il 19%). In pratica, dato che a essere selezionati sarebbero ovviamente i nuclei familiari con ISEE nettamente sotto la media anche dei “poveri”, è praticamente certo che con questo tipo di sussidio il numero dei poveri resterebbe praticamente invariato.

Finita l’analisi dei testi di legge e dei numeri, provo a sintetizzare le opinioni che ho già espresso:

  1. questa misura ha un respiro estremamente limitato, e, anche ove applicata col massimo dell’efficacia, una capacità minima di incidere sulla povertà. Con tutti i loro (numerosi) difetti, le proposte di reddito minimo hanno almeno il merito di puntare a un nuovo approccio al welfare, centrato sul contrasto alla povertà.
  2. i destinatari del sussidio sono definiti in modo confuso. Identificare poveri e disoccupati è una semplificazione comprensibile ma, alla luce dei dati, sostanzialmente errata: secondo i dati Istat, a essere “povere” sono il 16,2% delle famiglie la cui “persona di riferimento” è in cerca di occupazione; ma non va dimenticato che tra le famiglie la cui persona di riferimento è un operaio con un lavoro l’incidenza della povertà assoluta è il 9,7%. Si tratta a mio avviso di un tasso altissimo, e ovviamente per queste famiglie è difficile pensare che la soluzione sia un “progetto di attivazione lavorativa”;
  3. il livello di reddito utile per ricevere il sussidio sarà bassissimo, con tutti i rischi che un simile limite comporta. Sappiamo bene che questo tipo di filtro spesso risulta inefficace (ne abbiamo parlato anche qui su Hic Rhodus);

Questi difetti non sono casuali, ma rispecchiano il fatto che questa misura non si inserisce all’interno di una riforma organica e strutturale del Welfare. Di conseguenza, è praticamente impossibile che essa indirizzi correttamente i destinatari “giusti”, proponga loro un percorso “giusto”, possa accedere a livelli di finanziamento “giusti”: questa misura o qualunque altra alternativa, con questi vincoli, finirebbe per essere un pannicello caldo, o, più esattamente, poco più di una dichiarazione d’intenzioni, che difficilmente saprei attribuire ad altro che a un obiettivo puramente d’immagine.
A ulteriore dimostrazione di questa debolezza sta l’osservazione che l’ “estensione dei beneficiari e incremento del beneficio” che la legge auspica dovrebbe avvenire, nei prossimi anni, grazie alla “razionalizzazione delle prestazioni di natura assistenziale, nonché di altre prestazioni anche di natura previdenziale, sottoposte alla prova dei mezzi, inclusi gli interventi rivolti a beneficiari residenti all’estero”. Queste parole, che riecheggiano i razionali di una proposta avanzata dall’INPS di Boeri e finora ignorata e anzi male accolta dal Governo, dimostrano chiaramente che quest’iniziativa è priva di un’autonoma capacità di “stare in piedi”.

Se il Governo vuole affrontare il tema del Welfare, può e deve farlo con un programma trasparente, coerente, unitario e serio. Per combattere davvero la povertà occorrono risorse ben diverse da 600 milioni, e dove reperirle è parte essenziale del programma stesso, non una variabile indipendente; riallocare le risorse disponibili significa rivedere pesantemente le attuali priorità, le politiche, gli strumenti e i canali attuativi, e di tutto questo finora abbiamo visto pochissimo.