Il grande azzardo della CGIL

Penso che sull’art. 18 non si possa esprimere un giudizio netto, chiaramente ed entusiasticamente a favore o nettamente e documentatamente contro, perché riforme strutturali di questo genere hanno bisogno di un po’ di tempo per dispiegare i loro effetti. Dai semplici numeri che oggi possediamo è piuttosto difficile avere un parere negativo (non è vero che ci siano state raffiche abnormi di licenziamenti dovuti alla minore tutela dei lavoratori), ed è noto che questa norma, proprio per il suo valore simbolico di disinnesco di rapporti aziendali considerati penalizzanti, viene guardata con interesse dai mercati. Un bilancio onesto delle ombre e delle luci del Jobs Act la trovate QUI (la Repubblica) ma ricordo analoghe considerazioni apparse su HR (QUI e QUI).

La CGIL ha presentato un referendum abrogativo non già sull’intero Jobs Act ma sul solo art. 18. Lasciamo stare il fatto che la Consulta ha dichiarato inammissibile il quesito, anche perché la CGIL non demorde e non è affatto finita qui. Mi preme rimarcare la logica sottostante, cercare di esplorare i perché una grande organizzazione sindacale decida di andare allo scontro sociale e politico proponendo un tale quesito (la CGIL ne ha proposti altri due, uno sui voucher e uno sulla regolazione degli appalti, di cui non tratterò qui per economia di spazio). Come già detto non ci sono affatto numeri chiari a sostegno di una pretesa minore tutela dei lavoratori, e anzi si potrebbero leggere i numeri disponibili in senso abbastanza diverso. Non numeri quindi; non evidenze, non una chiara valutazione d’impatto. Cosa allora? Ascoltando la Camusso (per esempio nella prima parte di questo audio) constaterete che, come prevedibile in dichiarazioni di natura sostanzialmente politico-ideologica, la segretaria confederale non offre alcun dato né alcuna argomentazione logica ma propone una visione che parte dalle sofferenze e difficoltà del gran numero di persone che non hanno lavoro, o soffrono di lavoro inadeguato (tutte considerazioni note e in buona parte condivisibili) passando poi ai “diritti dei lavoratori” in generale, che sono da difendere e ripristinare; se connessione logica c’è fra disoccupazione e diritti dei lavoratori, fra salari e diritti dei lavoratori, fra disuguaglianze e diritti dei lavoratori, queste sono lasciate all’interpretazione degli ascoltatori che quindi possono inglobare il discorso generico in un’equazione specifica: art. 18 → diritto dei lavoratori → maggiore e migliore occupazione generalizzata. Nello stesso audio Nino Baseotto, segretario organizzativo CGIL, parla addirittura di visione futura nei quesiti referendari e di cambiamento della storia del lavoro in Italia qualora vincessero (ricordo che la CGIL non vuole semplicemente tornare al ripristino del vecchio art. 18 ma estenderne i benefici alle piccole imprese a partire dai 5 dipendenti).

Sempre ricordando che i dati hanno ancora natura incerta insistiamo sul fatto che saranno imprecisi e incerti quanto si vuole ma nulla lascia intendere che l’attuale art. 18 (con la modifica introdotta con Jobs Act) sia causa di massiccia produzione di licenziamenti immotivati. Un articolo di Linkiesta, con dati fino a Ottobre 2016, mostra abbastanza chiaramente il contrario: non ci sono stati più licenziamenti (anzi, meno) e comunque questa maledetta questione riguarda sostanzialmente l’1% della popolazione in età di lavoro. Viene onestamente da chiedersi perché la CGIL, che ben conosce i grandi problemi del nostro mercato del lavoro, si accanisca in una battaglia che riguarda potenzialmente l’1% degli occupati e che, numeri alla mano, non pare incidere particolarmente. Se la risposta che ci possiamo dare non risiede nelle proprietà dell’oggetto, occorre vedere le cose sotto il loro profilo simbolico.

Il primo grande elemento simbolico riguarda il tentativo di recupero di settori sociali che hanno da tempo abbandonato la CGIL: le classi sociali povere, marginali nel mercato del lavoro, i giovani, i disoccupati. Il sindacato rosso perde più tesserati di Cisl e Uil (che comunque non possono gioire), perde al Sud, metà degli iscritti sono pensionati mentre i lavoratori atipici sono in numero ridicolo (fonte); ciò che appare è che il sindacato in generale tende a tutelare chi ha già tutele, ma non ha progetti per chi tali tutele non ha, perché non lavora, perché ha perso il lavoro, perché vive di finte partite iva e così via. Ecco lo slogan sui diritti letti, col referendum, essenzialmente su un elemento molto evocativo, dove sarà facile trovare alleati politici, anche se di scarsissimo interesse operativo. Vincendo, in ipotesi, questo referendum, non si vedrebbe nessun chiaro cambiamento nelle relazioni industriali, nessuna inversione nel flusso dei disoccupati, o dei licenziati, o dei precari. Questa mossa della CGIL è essenzialmente una mossa politica, non sindacale; una mossa per comunicare (non per realizzare); una mossa per tornare in gioco come veto player.

E questo è il secondo punto chiaro: una serie di circostanze che abbiamo raccontato QUI ha portato il sindacato, negli anni ’90, a costituirsi come vero e proprio soggetto politico nella stagione detta “della concertazione”, che presto è diventata del consociativismo, con un sindacato che da organizzazione di tutela dei lavoratori si è trasformato in soggetto attivo di politiche economiche e del lavoro. Ma questo ruolo così incisivo è da tempo tramontato e i referendum CGIL sono in questo senso molto chiari: vogliamo ancora dire la nostra sul Jobs Act, vogliamo dire la nostra sulle politiche del lavoro; e se non ci date l’ascolto che meritiamo provvederemo a mobilitare le piazze.

Perché le piazze si mobiliteranno eccome, siatene certi. Come ha fatto vedere, con grande evidenza, il recente referendum costituzionale, gli italiani – in caso di referendum di questo genere – non entreranno nel merito ma giudicheranno politicamente: a favore dell’eventuale abolizione la sinistra radicale (grande sconfitta in questa vicenda) assieme alla destra sociale, gli indignati di professione assieme alle volpi della politica che pensano di sfruttare il referendum per una spallata ulteriore al fragile sistema italiano. Al momento questo pericolo non c’è, come abbiamo già detto, ma dubito che Camusso si lasci smontare per così poco. Rimangono gli altri due referendum che, da soli, sono morti sul nascere; solo la presa emotiva dei diritti calpestati, della difesa dell’articolo 18 originario, poteva trascinare tutto il meccanismo che nasconde altre ridicole posizioni del sindacato (nel caso dei voucher se n’è parlato abbastanza sulla stampa) di cui non trattiamo.

Personalmente spero che la cosa si smonti. L’idea di passare mesi in ridicole discussioni, per lo più fuori tema, sui diritti calpestati, sulla necessità dell’art. 18, sul mondo cattivo governato da Bilderberg e sul nuovo capitalismo finanziario internazionale, ecco, molta voglia non ne avrei.