I nuovi cani di Pavlov

Che fine ha fatto Greta Thunberg?

Intendo dire: dopo avere salvato il mondo, attraversato l’Atlantico a nuoto, fatto la faccia brutta a Trump e avere scassato i cabbasisi sui social per mesi (non lei, porella, voi!), è letteralmente scomparsa dalle mie bacheche Facebook e Twitter, e una ricerca su Google riporta poche e apocalittiche notizie: sarà protagonista di un documentario che non vedo l’ora di non vedere, registra il marchio #FridayForFuture (perché ha la sindrome di Asperger, ma non è scema; ovvero: chi tira i fili non è scemo); altre piccolezze secondarie, assolutamente non centrali del messaggio ambientalista, rarefatte nei giorni (googlare per credere). Eppure ho visto le menti migliori della mia generazione scannarsi sui social pro o contro le banalità dette da questa bambina. Beh? La battaglia ha lasciato solo morti e feriti gravi, nessuno ha più la forza di urlare, e strillare, e battere i pugni sul tavolo per il cambiamento climatico, nessuno tiene più a casa i bimbi il venerdì per protestare, nessuno più…

Nessuno più parla di Greta Thunberg (o pochi, marginali…) per la semplice ragione che lei come personaggio, e il messaggio proposto (banale, incompleto, ipersemplificato), hanno completato da tempo il ciclo di vita di una notizia. Qui abbiamo uno splendido caso di studio sulla comunicazione e i comportamenti di massa, perché Greta è stata sulle prime pagine per mesi, in tutto il mondo, pur essendo una non notizia.

È un fenomeno noto, studiato, e senza salire in cattedra basta indaghiate un po’ nel vostro fòro interiore per comprendere questa piccola verità: tutto stanca, ma proprio tutto. Stanca mangiare pasta e fagioli come stanca mangiare caviale. O le notizie salgono di livello, rivelano retroscena piccanti, giungono a scoop inattesi, oppure la gente si stanca. E poiché le notizie sono merce, e si devono vendere, quando stancano c’è tutta un’industria che va in crisi. Un esempio chiarissimo: l’industria della morte di Isis (Daesh): prima la tremenda scena del poveraccio sgozzato in diretta; poi ancora; poi ancora; poi gruppetti di sgozzati in diretta; poi bruciati vivi… e già non se ne poteva più, e quell’orrore era stato metabolizzato nel nostro panorama quotidiano. Cosa mai poteva fare di peggio l’Isis per restare nelle prime pagine dei quotidiani, per generare lo spavento continuo che era il suo obiettivo? La sua sconfitta militare ci impedisce di rispondere, ma vi propongo a margine anche questa piccola osservazione: l’Isis è stato sconfitto anche perché non aveva più nulla da comunicare…

Un altro esempio a mio avviso eclatante: i marò. C’è stata un epoca, a ridosso del caso che coinvolse i nostri fucilieri, in cui non pochi fra voi (scusate l’uso di questo pronome, ma proprio non posso utilizzare un maieutico e rassicurante “noi”) ne scrivevano di cotte e di crude. Senza un minimo di contezza, ovvio, ma con un’acrimonia straordinaria (gente che li chiamava ‘assassini’ con una gratuità, un’insensatezza e una sciagurata superficialità che la voglia di sbatterli nel muro scorreva forte in me…). Domanda: sapete che fine hanno fatto? Sapete se la vicenda è in corso o conclusa, se i marò sono stati condannati o assolti, se sono in Italia o all’estero… Dai, confessatelo: non sapete un fico secco. A un certo punto, semplicemente, dei marò non si è parlato più. Ma tutta l’energia emotiva – in gran parte negativa – riversata per mesi sui social e sui quotidiani, a cosa è servita? Dove è confluita? Dovrei fare una lunga digressione – tranquilli, la eviterò – per spiegare come le parole agiscano concretamente sul mondo, cambiandolo (ne scrivemmo a lungo su HR, nei primi anni; potete vedere almeno QUI e QUI). Quindi quell’energia, quelle parole (di odio, di risentimento, di condanna, di giudizio, più raramente di analisi e comprensione) hanno prodotto dei cambiamenti nelle coscienze, nelle visioni del mondo, e infine nei comportamenti delle persone… Poi, all’improvviso, niente. Spariti i marò.

Finché da storia di sangue era diventata storia dei brutti indiani cattivi, poteva reggere; quando da qui si è passati alle lungaggini diplomatiche e processuali, che palle! Via, avanti un altro caso!

Il caso attuale è ovviamente il coronavirus: ogni specialista che si affanna a dire che si tratta di una banale influenza (generalmente a ore tarde in programmi che pochi vedono) è soppiantato da centinaia, ma che dico: da migliaia! di cugini che su Facebook trovano le più assurde notizie sui cinesi che non ci dicono la verità, l’OMS che tace, Burioni pagato da BigPharma, sul complotto, sul pericolo… e giù la diffidenza verso certi stranieri, gli episodi di intolleranza e via discorrendo, visto che le parole sono pietre. Milioni di specialisti di coronavirus, grazie alle risorse di Internet, possono realmente trovare fonti a sostegno delle proprie paranoie, così come possono trovare fonti straordinarie che testimoniano con chiarezza incontrovertibile che non siamo mai andati sulla Luna, che l’11 settembre è stato pianificato dalla CIA e cose simili; cose elettrizzanti che ci ripagano della noiosa quotidianità, che ci fanno sentire speciali (in pericolo, forse terrorizzati, ma speciali). E vedo le menti migliori della mia generazione caderci come polli di allevamento.

Perché lo sono, polli di allevamento. O meglio: cani pavloviani, mossi a comando dall’agenda delle questioni-urgenti-meritevoli-di-essere-discusse dettata da forze esterne a loro. Non “grandi vecchi”, non solo “bestie” e centrali russe della disinformazione, ma in realtà un’eterogenesi di forze disparate e sostanzialmente caotiche fra le quali la principale resta quella già citata: la natura di merce che ha oggi la notizia, e la necessità di sostenerla per un determinato ciclo di vita prima dell’inevitabile obsolescenza.

In questo contesto perverso, tendenzialmente universale, gravido di conseguenze pratiche, è difficile indicare una strada razionalista perché l’emotività e il narcisismo (cioè il porre al centro della scena sempre e solo il vostro Ego spaventato) generalmente vincono sulla massa ignorante, sulle persone confuse, ma anche sugli straordinari cacacazzi che infestano le colonne di tantissimi quotidiani, salotti televisivi e profili Facebook.

Prendendo – solo come caso di studio – il coronavirus cinese, ecco un piccolo breviario di resistenza anti-pavloviana:

  • se non siete virologi potete avere opinioni ma non competenze; quindi: siete sicuri di volere dire la vostra?
  • sì, lo so: avete trovato una fonte [che vi sembra] credibile che dice questo e quello sul coronavirus; lasciate perdere, io ne potrei trovare dieci volte tante che dicono l’esatto contrario. Questo è un tema rilevante, scusate se non posso trattarlo compiutamente ma, in sostanza: potete trovare “autorevoli” fonti a conferma di qualsivoglia cazzata. Non fate torto alla mia e alla vostra intelligenza, dai…
  • imparate dall’esperienza: dall’allarme Ebola alla Sars, tutti hanno spaventato l’opinione pubblica per… una settimana? due? Ma vi ricordate il panico per l’Ebola? Gino Strada che diceva eroicamente “se prendo il contagio lasciatemi morire qui fra i miei pazienti”? I servizi al TG su come fossero pronte le nostre unità di emergenza? SVEGLIA! Quanto Ebola è arrivato in Occidente? Quanti morti? Quanto disagio avete subito a causa dell’Ebola? Nessuno, ma che storia fantastica da raccontarsi!
  • Certo, prima o poi ci potrebbe essere un supervirus che ci uccide tutti (tranquilli: non è il caso del coronavirus), in alternativa all’asteroide, alla Terza Guerra Mondiale e altre quisquilie che non turberebbero per niente l’ordine cosmico. Se e quando dovrà essere, è bene che lo sappiate sin da ora, non saranno le vostre isterie su Facebook a cambiare le cose.
  • Ma soprattutto, soprattutto, NON OMOLOGATEVI! Se volete vivere, mentre sperate di sopravvivere, NON OMOLOGATEVI, perché da omologati, ve lo dico: che siate vivi o morti non fa alcuna differenza.