Elezioni. Subito

Sempre stato a favore di Draghi. Non potendolo nominare io, personalmente, Presidente del Consiglio a vita, mandando tutti i partiti in vacanza pagata a Rimini per un decennio, avevo sperato fosse eletto Presidente della Repubblica, perché avevo abbastanza chiaro che sarebbe finita così. Consumato dai populisti decerebrati, dai sondaggi che dicono che vincerà la destra, dalla necessità di non continuare a perdere consensi elettorali (che si guadagnano se strilli dall’opposizione, non se lavori nel governo). Associazioni professionali e imprenditoriali, sindacati e forze riformiste (incluso il PD) sono preoccupatissimi e implorano Draghi di restare, ma secondo me sbagliano.

Il ricatto qualunquista, la pulsione eversiva, la mancanza di responsabilità (bisogna essere adulti, per capire e provare senso di responsabilità…) renderebbero Draghi e il suo gabinetto prigionieri di qualunque ditino alzato, di distinguo, emendamenti infiniti, richieste inaccettabili ma presentate come irrinunciabili. L’asticella della conflittualità verrebbe alzata giorno dopo giorno per una volgare strizzatina d’occhio agli elettorati di riferimento leghisti e cinque stelle, per uno sconcertante balletto che un uomo come Draghi non può accettare, non deve. Come ho scritto l’altro ieri c’è un abisso di incomprensione semantica fra il rigore e la serietà di Draghi (e dei “suoi” ministri) e le pulcinellate di Conte e Salvini. Non si tratta – come scioccamente qualche disperato propone in questi giorni – di stilare i 3, 4 o 5 punti essenziali per arrivare a fine legislatura, perché quei punti diverrebbero farsa, terreno di scontro, interpretazione fraudolenta.

Faccio mie le parole di Mattia Feltri di ieri:

Se qualcuno ha paura che vinca la destra, accantoni la paura. La destra che ci è proposta è pessima, ambigua, non sembra aver compreso che direzione abbia preso il mondo, che la globalizzazione va governata e non combattuta, quali siano gli obiettivi di Russia e Cina, si accompagna con gaglioffi alla Orbán o alla Le Pen, crede nel potere taumaturgico dei confini, ignora che cosa sia lo stato di diritto, è profondamente giustizialista, fomenta le peggiori tensioni razzistiche, prolifera sulle paure, talvolta indugia con ridicoli residui di fascisteria, non ha nulla di liberale, se non qualche accantonata e marginale ambizione berlusconiana. Ma se è questo il governo che vogliono gli italiani, è giusto che lo abbiano. E possiamo affrontarlo senza le solite geremiadi millenaristiche: se vuole durare più di sei mesi, Giorgia Meloni sa che deve proporre un’agenda minimamente occidentale, atlantista e non sfacciatamente trumpiana, collegata a Bruxelles, interpretata nei ministeri cruciali da uomini di governo adeguati e scelti fuori dal circolo di Colle Oppio.

Ho vissuto decenni con la paura della vittoria degli avversari, sempre demonizzati, sempre portatori dell’Apocalisse. Sbagliavo. La Nazione ha già vissuto lunghi anni con governi di destra, che hanno varato leggi liberticide e illiberali; la mia ex Regione “rossa” è diventata nera; il mio storico comune “rosso” è da tempo in mano a un berlusconiano, e sapete la novità? Le differenze coi vecchi padroni “rossi” sono pressoché impercettibili.

La storia dell’instabilità politica della Seconda Repubblica, assai differente dall’instabilità della Prima, insegna che dall’opposizione si guadagnano punti elettorali, poi si vince, poi non si sa governare. Questa demenziale legislatura lo dimostra in modo chiaro, cristallino, con un governo dei dementi caduto per propria incapacità e inconsistenza malgrado la valanga di voti (e quindi seggi) ottenuti; poi è intervenuta la coalizione malata fra PD e 5 Stelle, sorta di copula contro natura (ma rimpianta da parte del PD) che non ha saputo fare niente di meglio. Draghi poi, così indispensabile da non poter essere mandato al Quirinale (questa la giustificazione ipocrita e falsa) è durato – facendo bene, poi benino, poi solo quello che si poteva – finquando l’odore delle imminenti elezioni e la lettura dei sondaggi e l’ingovernabilità interna dei partiti dei mascalzoni non ha reclamato la sua libbra di carne.

Il grande e trasversale partito italiano del pasto gratis, dei diritti acquisiti, dei superbonus e dei condoni, del reddito di cittadinanza e di quota 100, degli scioperi delle maestre rigorosamente di venerdì per fare il ponte, delle riforme istituzionali invocate retoricamente da cinquant’anni e regolarmente mandate a puttane, questa Italia vuole Meloni e Salvini al timone, semmai con pieni poteri, semmai gestiti dal Papeete, ma sì, che se la prendano, la guida del Paese. Fra vincoli europei, pressioni dalla società civile, dai sindaci e dagli imprenditori, mancanza di sinapsi per capire cosa si deve fare (non per fare bene le cose, ma semplicemente per sopravvivere a se stessi), ecco, fra tutto, questa destra immonda vincerà le elezioni ma durerà poco. E ci sarà un’altra crisi, e Mattarella dovrà estrarre un altro coniglio dal cappello.

Ma intanto, intanto, intanto, le forze riformiste, socialiste, liberali potranno indossare il cilicio e fare un esame di realtà. Costruire un progetto, indicare un orizzonte, elaborare una strategia comunicativa, raccogliersi attorno a leader veri. Queste forze, che saranno minoritarie in Italia, storicamente, ma non irrisorie, avranno il tempo per rincorrere un progetto, anziché inseguire farfalle. Scrive sempre Feltri:

Quanto al Pd, impari a guardare oltre lo stasera. Affronti una campagna elettorale seria, non se la giochi con un antifascismo da sceneggiata facile e sterile, ché dire loro sono peggio di noi è un gioco noioso e stanco, colga l’occasione per strutturare un partito di sinistra moderna, liberale, meno estemporanea e nostalgica delle belle dottrine del Novecento, studi un nuovo statuto dei lavoratori che sia adatto al mondo globalizzato, un nuovo sistema di welfare sostenibile con i denari di cui disponiamo, una transizione green solida e concreta anziché apocalittica, una partecipazione all’Unione europea che contribuisca a farne una potenza mondiale, economica e militare, saldamente occidentale e democratica e più indipendente dagli Stati Uniti. C’è tempo. Dopo tre lustri passati al governo senza vincere una sola tornata elettorale, un giro all’opposizione non è utile, è necessario, servirà per pensare a come si vuole rimettere in piedi un sistema logico e non emergenziale di alleanze, per seminarlo questo benedetto campo, che più che largo dovrà essere fertile, a come si vuole diventare strategici anziché tattici, soprattutto ad arrivare preparati all’appuntamento fra cinque anni. O fra due.

Se vincerà la destra (e vincerà) non sarà perché il destino è cinico e baro, perché Berlusconi monopolizza le televisioni, perché il populismo – si sa – dilaga in tutto il mondo, perché Putin ci mette del suo, perché il popolo è ignorante. Ma perché i riformisti, socialisti e liberali non sanno parlare al popolo, convincerlo, mostrare la strada. Questi “riformisti” senza riforme, incapaci di pensare ai giovani, incapaci di proporre soluzioni per le periferie, ignavi in tutto tranne che nei problemi che sono trend su Twitter in quel momento. Capaci di proteggere corporativamente gli elettori tradizionali e garantiti (ceto medio, pensionati), incapaci di estendere la rete dei diritti, salvo temi eclatanti e di moda al momento (il ddl Zan, per esempio, che pareva fondamentale poi non è fregato nulla a nessuno più; gli immigrati, buoni prima per un ipotetico Ius Soli, poi per mezza settimana per un improvvisato Ius Scholae, ma in realtà chi se ne frega, abbiamo la legge Bossi-Fini da venti anni – dico 20! – e a questi riformisti non è mai fregato nulla).

Ricominciare dai territori, dai Comuni e dalle Regioni perse, e lì hanno perso perché hanno governato male e con arroganza. Ricominciare dalle idee, che significa buttare via le ideologie del Novecento, e chi le rimpiange c’è sempre Rizzo che li aspetta a braccia aperte. Ricominciare dal lavoro mandando a quel paese Landini, la CGIL e tutte le corporazioni. Ricominciare dalla cultura, dalla scuola, dall’Università e dalla ricerca, che siamo fra le dieci prime potenze al mondo con una scuola che potrebbe primeggiare in Africa. 

Oppure niente. Continuiamo così. E anche la prossima legislatura sarà un balletto di pavidi incompetenti.