La stampa in Italia non è in pericolo, è solo mediocre

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Esce l’ennesimo indice globale in cui l’Italia ha punteggi vergognosi: è la volta della libertà di stampa in cui, secondo i promotori dell’indagine (Reporters Without Borders), siamo ben al 77° posto “dopo Burkina Faso e Botswana” (La Stampa) o dopo la Moldavia (la Repubblica) o il Nicaragua (il Fatto Quotidiano) a seconda di quale paese abbia colpito più la fantasia dei titolisti. Ogni volta che esce un rapporto di questo genere la stampa si scatena, con maggiore o minore veemenza, e io scrivo un post controcorrente per dire, sostanzialmente, che questi rapporti, coi loro indici, utilizzano di regola metodi discutibili o, quanto meno, da ben comprendere tecnicamente prima di giudicare e, soprattutto, prima di utilizzare strumentalmente il risultato, come per esempio hanno fatto (unici se non sbaglio) i giornalisti di Gomez e Travaglio.

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Poiché ciò che intendo dire è stato già ampiamente scritto su Hic Rhodus, vado direttamente al punto, raccomandando i curiosi di accedere ai precedenti testi (si veda alle “Risorse” finali) per discussioni più approfondite sul piano metodologico. Ebbene, anche in questo caso, l’indice è basato sull’opinione espressa tramite un questionario da giornalisti (quanti?) di 180 paesi, “aggiustato” sulla base di indicatori definiti “quantitativi” redatti da un gruppo di specialisti (chi?) con riferimenti ad abusi e violenze contro giornalisti. Questo approccio quali-quantitativo è riferito a 6 indicatori (tecnicamente non si tratta di indicatori ma di dimensioni, ma giuro che non sottilizzerò ulteriormente; d’altronde sono giornalisti e non esperti di metodo) tutti sensati ma molto ampi e generici. Anche se queste informazioni sono tratte da un paragrafo chiamato Detailed methodology credo sia chiaro che ci sono molti aspetti vaghi; poiché i nostri lettori non vorranno perdere troppo tempo, segnalo solo:

  1. i pareri soggettivi restano tali; il metodo utilizzato da RWB, per quanti giornalisti possano avere contattato, non è rappresentativo e – tanto più se il numero di giornalisti non fosse alto (il fatto che non venga dichiarato fa propendere per la tesi che siano pochi per ciascuno dei 180 paesi) – è facile capire che avere il questionario di Padellaro o quello di Sallusti o quello di Fontana fa un’enorme differenza;
  2. gli italiani sono noti nel mondo per essere ipercritici; ci arrabbiamo moltissimo se gli stranieri parlano male di noi ma ci riserviamo il diritto di fare ogni critica possibile al nostro Paese con molto esercizio di pancia e poco di testa. Questo atteggiamento assume rilievo metodologico in un’indagine soggettiva transnazionale perché comparare giudizi italiani ipercritici a giudizi non italiani che, semmai, inclinano all’auto-elogio, produce una “distorsione” (si chiama così) determinante per farci impropriamente scendere nella classifica;
  3. il fatto di non trovare una dettagliata spiegazione metodologica sui punti sopra accennati depone sempre a sfavore del rigore e della validità dei dati.

Ma andiamo a leggere il dettaglio della parte che riguarda l’Italia che riporta semplicemente queste poche informazioni:

In May 2015, the daily La Repubblica reported that between 30 and 50 journalists were under police protection because they had been threatened. The level of violence against reporters (including verbal and physical intimidation and death threats) is alarming. Journalists investigating corruption and organized crime are the ones who are targeted most. In the Vatican City, it is the judicial system that is harassing the media in connection with the Vatileaks and Vatileaks 2 scandals. Two journalists are facing up to eight years in prison as a result of writing books about corruption and intrigue within the Holy See.

Quindi in Italia ci sono:

  1. fra i 30 e 50 giornalisti sotto protezione (come dichiarato in un’inchiesta della Repubblica);
  2. un livello di violenza allarmante (questo ha consentito il poderoso titolo del Fatto quotidiano);
  3. il sistema giudiziario del Vaticano minaccia i media e in particolare due giornalisti (per il caso Vatileaks).

Il punto 2 non è circostanziato in alcun modo; il punto 3 riguarda il Vaticano e il suo sistema giudiziario, quindi un paese terzo. Riguardo all’importante punto 1: quei 30-50 giornalisti hanno la scorta per proteggersi da chi? Perlopiù da mafiosi e camorristi ma ci sono anche altri casi (il servizio di Repubblica lo trovate QUI, ma che l’unica fonte di RWB sia un servizio – per quanto attendibile – pubblicato da un quotidiano la dice lunga sul metodo). Adesso mi e vi domando: cosa c’entra con la libertà di stampa l’avere avute minacce in seguito a un’inchiesta giornalistica? In Italia moltissimi magistrati viaggiano sotto scorta per analoghi motivi, ma in un’ipotetica indagine sulla “libertà della magistratura” questo non sarebbe un indicatore di magistratura asservita, non libera di esercitare. La violenza (specie mafiosa) riguarda la violenza, non riguarda la libertà di espressione; quei poveri giornalisti hanno la scorta perché hanno potuto esprimersi e lo Stato li difende affinché possano continuare a farlo. Dopodiché facciamo un bell’indice sui paesi più violenti e pericolosi e includiamoci anche l’indicatore delle minacce ai giornalisti, ma è un’altra cosa (in realtà un indice del genere c’è, anche se non parla di giornalisti, si chiama Global Peace Index e ne abbiamo parlato male QUI, per ragioni sostanzialmente analoghe).

Insomma: metodo debolissimo, non precisato, molto inferenziale e basato su giudizi soggettivi non comparabili da paese a paese. Allora la domanda è: a cosa servono, esattamente, questi esercizi molto diffusi specie in area anglosassone (anche se RWB è francese)? Non saprei esattamente dirlo senza ricorrere a ipotesi fantasiose che rifiuto. Diciamo che una ONG sufficientemente accreditata riceve molti fondi e in questo modo fa clamore, concentra l’attenzione su di sé, fa discutere; e discutere, sia chiaro, fa sempre bene. Purtroppo oltre a discutere ci si fa anche strumentalizzare (vedi il titolone del Fatto), che poi vuol dire lasciare che qualcuno cerchi di influenzare l’opinione pubblica per ragioni politiche, che non dovrebbe essere lo scopo di questi esercizi. Ma qui arriviamo al punto vero della questione. Giornali come Il Fatto Quotidiano, per il fatto stesso di essere così inclini a strillare titoloni come quello visto sopra, non fanno buon giornalismo; fanno politica in un senso deteriore rispetto a quanto questo nobile termine meriterebbe. La politica del disagio, la politica della denuncia sempre e comunque, e quindi di una sottile disinformazione atta a indignare, a preoccupare, a vellicare gli istinti peggiori dei lettori.

o-LIBERO-QUOTIDIANO-facebookIl problema, in Italia, non è tanto quello della scarsa libertà di stampa quanto della mediocrità del giornalismo. Molti, troppi giornali smaccatamente schierati che si fanno un dovere nel deformare le informazioni nel senso gradito dall’editore di riferimento, di questa o quella forza politica; oppure sono volgarmente scandalistici e gossipari, all’insegna di uno strapaese che indubbiamente c’è, in Italia, ma dovrebbe essere combattuto con buona informazione, con cronaca non pruriginosa, col giornalismo d’indagine, col rifiuto delle veline, con le domande scomode ai politici (anche a quelli amici). Ho già trattato la scarsa qualità media dei giornali italiani qualche mese fa e rimando a quell’articolo segnalando che poi, ovviamente, sopravvive una pattuglia di buon giornalismo che però non riesce a fare la differenza. Mai come in questo caso la moneta cattiva riesce a scacciare quella buona, e un popolo sempre più ignorante alimentato per più di vent’anni da bufale e scandaletti e gossip e onanismo nazionalistico non riesce più a distinguere. In Italia, in conclusione, manca un’opinione pubblica sana, ben informata, capace di esprimere la domanda di buona informazione. E gli indici farlocchi di RWB non aiutano in tal senso.

Giornale Culona 1 - NonleggerloRisorse: su questo tema, su Hic Rhodus:

Risorse: su questo tema, non su Hic Rhodus: