Il cesarismo renziano all’epoca della crisi di rappresentanza

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O Captain! My Captain! rise up and hear the bells; Rise up-for you the flag is flung-for you the bugle trills; For you bouquets and ribbon’d wreaths-for you the shores a-crowding; For you they call, the swaying mass, their eager faces turning (Walt Whitman)

Sì, Renzi è un leader decisionista, arrembante, poco incline alla mediazione. Semplificare l’atteggiamento renziano come “berlusconiano”, “democristiano” o addirittura – come a chiare lettere denunciato dalla minoranza PD – “di destra” è inaccettabile e privo di qualunque consistenza logica, come ho scritto un po’ di tempo fa qui su HR; liquidare il suo atteggiamento come cesarismo dispotico, mera comunicazione senza costrutto, improvvisazione demagogica, può avere indubbiamente un fondamento, ma solo parziale, e non aiuta ad andare molto avanti nell’analisi. Ancora una volta per capire cosa accade occorre uno sguardo diverso e non ideologico, uno sguardo – per esempio – diverso da quello di Fassina che – non unico – critica la politica renziana perché “non di sinistra”. Poiché questo è un elemento centrale nel mio ragionamento, devo soffermarmici un po’.

L’ideologia è un filtro menzognero anche quando, casualmente, ci azzecca. L’ideologia è un sistema più o meno organico di idee che non vengono messe in discussione. Una volta che un individuo accetti di adottare il punto di vista di un’ideologia non cerca più di ragionare, argomentare, discutere, sottoporre a verifica le specifiche idee parte di quel sistema; il sistema è accettato come insieme, e parimenti ogni sua parte. Ne discende, per la persona ideologizzata, che l’interpretazione del mondo passa attraverso questo filtro e ne viene deformata. Tutto ciò che si attaglia al sistema ideologico e lo conferma è “giusto”, ciò che appare difforme è sbagliato. A prescindere. Le ideologie sono state un potente motore di coinvolgimento popolare nel ‘900: fascismo, comunismo (le principali) ma anche liberismo, cattolicesimo (quando interpretato in funzione politica) e infine populismo, che si presenta come anti-ideologia senza esserlo. Quando Fassina (e altri) fonda la sua analisi sull’aderenza del Renzi-pensiero a un modello “di destra” oppure “di sinistra”, anziché partire dal merito delle proposte, manifesta con evidenza la sua esigenza di adottare un filtro, uno schema pre-concetto, un sistema di pensieri pensati da altri (perché questo è il fondamento dell’ideologia: pensare attraverso un sistema di pensieri altrui). Ciò non significa buttare via valori e prospettive progressiste, o “di sinistra”; sinistra e destra – come ho scritto tempo fa – sono concetti tuttora significativi se privati delle pesantezze di ideologie inattuali.

La crisi delle ideologie (sulle cui cause ho accennato in altra occasione) è naturalmente anche una crisi di rappresentanza. Nella seconda metà del ‘900 per una stragrande percentuale di operai era “naturale” votare PCI e iscriversi alla CGIL, mentre per i moderati piccolo borghesi era “ovvio” votare DC. La proposta politica, il linguaggio, gli obiettivi sociali propugnati, rendevano queste appartenenze estremamente funzionali. Oggi non è più così: quella classe operaia appare quasi residuale; il ceto medio si è ampliato e diversificato; nuove e impensate povertà si manifestano prepotenti (i giovani, gli immigrati…); lo stesso concetto di “lavoro” non assomiglia in nulla a quello del ‘900, ma neppure quelli di famiglia, di nazione, di Europa…

Nella crisi di rappresentanza sono in particolare due i soggetti che ne soffrono fortemente le conseguenze: i sindacati e i partiti della sinistra. Sui sindacati, e sulla parabola ormai discendente che ne identifica in tragitto finale ho scritto un post precedente che vi invito a leggere perché assolutamente attuale; oggi i sindacati appaiono alla maggioranza dell’opinione pubblica non solo distanti, ma in molti casi complici dell’attuale situazione italiana. Eccessivamente burocratizzati, partecipi di logiche spartitorie e di carriere personali, eccessivamente protettivi verso poche categorie di lavoratori ed eccessivamente distratti verso tante altre. Ma è nei partiti della sinistra, e in particolare nel Partito Democratico, che la crisi di rappresentanza conseguente alla morte delle ideologie ha mutato profondamente natura. Il PD, notoriamente, è un partito di impiegati e pensionati, sottorappresentato nelle componenti operaie e dei disoccupati; le componenti culturali di quel partito, dopo i diversi travagli e trasformazioni degli ultimi 25 anni, sono molteplici e includono componenti “liberal”, liberalsocialiste, socialdemocratiche, cattoliche e anche post-comuniste riformiste; mentre alcune di queste componenti sono fortemente radicate nella modernità e sull’attualità, alcune sono evidentemente figlie del secolo scorso. pd-strada Le conseguenze di questa modernità – che ovviamente possono non piacere – riguardano il linguaggio, inteso come pensiero, valori, forme dell’organizzazione. Per capire questo elemento fondamentale basta considerare come hanno funzionato e come funzionano (formalmente) le decisioni in seno al principale partito della sinistra: all’epoca del PCI vigeva il “centralismo democratico” mentre oggi…? Oggi vigono solo i rapporti di forza (chi ha più numeri vince) e per il resto non solo le minoranze mostrano con vigore e ampia pubblicità il loro dissenso ma, come ciascuno può vedere, gli articoli anti-renziani scritti da esponenti della direzione PD (Fassina, Civati, Damiano, Bersani, D’Alema…) sono continui, senza soluzione di continuità, ospitati da quotidiani che ben volentieri alimentano il gossip politico, perché ormai di questo si tratta. Senza il collante ideologico, senza la responsabilità della rappresentanza, con una classe politica vecchia che non comprende appieno la profondità del cambiamento, si apre la prospettiva cesarista incarnata da Renzi.

Cos’è il cesarismo? Secondo la Treccani on line è un

Regime politico autoritario basato sul potere di un uomo ‘forte’, in genere appoggiato dalle forze armate e dotato di consenso popolare (comunque sollecitato e ottenuto), perché dotato di carisma e capace di porre termine a una situazione di disordine e di conflitto sociale e politico.

Pur utilizzando questo concetto per analogia e senza prenderlo alla lettera, le caratteristiche ci sono tutte: il consenso popolare è indiscutibile; le “forze armate” sono costituite da un ampio ventaglio di alleati, dalla Leopolda ai più recenti sodali; il carisma è evidente e sulla capacità di porre termine alla situazione di disordine non si sa, ma tale disordine è ampio ed evidente e sulla proclamata volontà di essere l’artefice di un nuovo risorgimento italiano Renzi è sempre stato esplicito. Tutto questo è bene? È male? Una risposta cinica è: se riuscirà a fare le riforme e a risollevare l’economia sarà stato un bene, se non ci riuscirà sarà prontamente avviato verso una fine degna di Cesare da una congiura di palazzo.

Fin qui il quadro. Ma se vogliamo fare un passo avanti imboccando la dura strada del realismo non-ideologico, dobbiamo chiederci se questo protagonismo renziano è la risposta migliore oggi, in Italia, a prescindere dalla riflessione sui risultati che, al momento, ancora non si possono vedere. Intendetemi: anche se difficile la distinzione, sto cercando di ragionare sull’atteggiamento, non sui singoli provvedimenti già trattati (piuttosto criticamente) da HR. La mia risposta è semplice: sì, l’atteggiamento decisionista e sostanzialmente cesarista di Renzi è quello che serve, o meglio: che servirebbe se fosse dispiegato pienamente (e mi spiego fra breve), in una situazione assolutamente incastrata qual è quella italiana. Una situazione che ci rende assolutamente differenti dalle nazioni che guardiamo come eventuale benchmark (Germania, Nord Europa…) o come paragone negativo (Grecia, in parte Spagna…). Il problema italiano è l’intreccio di interessi e valori, rappresentati da miriadi di parti sociali, tutte in grado di porre veti giuridici o di fatto a riforme che riguardino loro stessi. L’Italia è il paese degli individualismi, dei corporativismi e dei diritti acquisiti. I timidi tentativi di riforme tentate dai governi di centro-sinistra (da quella della scuola di Berlinguer nel 2000 alle “lenzuolate” di Bersani nel 2006) sono sostanzialmente fallite, o hanno dispiegato un limitatissimo potenziale, proprio per i veti dei soggetti toccati dalle riforme. L’appoggio dei sindacati, l’eventuale ricorso poi vinto, la serrata e ogni altra forma di resistenza si sono sempre incrociate con la mentalità statuale italiana della tutela, della pace sociale, della spesa pubblica in favore del quieto vivere, del volemose bene che ci hanno regalato, in un’altra epoca, le baby-pensioni e le centinaia di migliaia di lavoratori infornati alle Poste, alle Ferrovie, in Regione… tanto paga Pantalone.

Quello che sta facendo Renzi è di cercare di spezzare questa logica. Renzi dichiara (e vedremo se sarà vero, vedremo fin dove si spingerà) di non voler guardare in faccia nessuno, che significa infischiarsene del sindacato “complice” del consociativismo ormai impresentabile, significa schiacciare le sinistra ideologica vetero-comunista del PD, significa snobbare Confindustria, rimproverare la Magistratura, forte solo di un 41% virtuale (preso alle europee, e quindi non capitalizzato in numeri in Parlamento) e contemporaneamente costretto a condividere la palla al piede degli insignificanti alleati (sovrarappresentati nel Governo), l’alleanza con Berlusconi, l’ostilità di autorevoli giornalisti, le bacchettate dei vescovi. Il rischio è enorme; per vincere, al momento vince. Cosa esattamente vinca non è ancora chiaro. Reggere un governo con gli handicap accennati non è come fare il sindaco a Firenze, o come incantare i fan alla Leopolda. Diverse riforme sono già state modificate in parti non sempre marginali – come abbiamo documentato su HR – per la permanenza, in Parlamento e nel PD, delle vecchie logiche che Renzi combatte ma che hanno ancora i numeri per ostacolarlo. Il disegno originario di Renzi si viene modificando (in parti crescenti) e rallentando (in maniera significativa) per il contesto paludoso, per i veti degli alleati, per la fronda parlamentare. Sede del Partito Democratico. Aspettando i risultati delle elezioni europee Credo che questo sia il motivo principale dello scontro nell’art. 18. Abbiamo già spiegato, dati alla mano, l’irrilevanza di questo articolo. Il motivo dello scontro è politico: Renzi vuole far venire allo scoperto sinistra PD e CGIL, vuole provocarli per costringerli, su un tema così simbolico (= ideologico) ad assumersi le responsabilità conseguenti. Se la minoranza si sentirà libera di disattendere la decisione della direzione PD e votare contro alla Camera e specialmente al Senato, dove Renzi avrà bisogno dei voti di Berlusconi, cosa succederà? Crisi di governo in vista? Non lo credo, anche se non si può escludere. Ma vincere sul conservatorismo di sinistra rafforzerà Renzi, renderà più invisi i dissidenti agli elettori segnandone definitivamente il loro declino politico. Chi ha seguito la drammatica Direzione del PD del 29 Settembre questo ha visto: il cesarismo renziano disposto a piccolissime mediazioni marginali e la piccola banda degli oppositori i quali parlavano un altro linguaggio: lo sprezzante D’Alema, il rancoroso Bersani e i pochi altri, indipendentemente dalle ragioni di merito, segnalavano semplicemente la loro appartenenza a un altro modo, diverso da quello renziano.

Indipendentemente dal merito delle scelte politiche di Renzi, il cospicuo capitale (di consenso popolare, di spazio di manovra disponibile) gli permetterà di andare avanti ancora per diverso tempo; possiamo immaginare che col soccorso berlusconiano riuscirà a varare il Jobs Act, che procederà con le altre riforme in corso, eviterà nell’immediato il commissariamento italiano della Troika… ma i Cesari sono leader soli. Il primo errore grave, il perdurare della crisi e della disoccupazione, l’eventuale necessità di nuove tasse per finanziare i suoi ambiziosi progetti, l’abbandono di preziosi quanto incerti alleati (vediamo i malumori in seno a Forza Italia proprio riguardo il sostegno a Renzi), sono in agguato per decretare una rapida fine di Renzi. I Cesari trionfano finche vincono; nessuno perdona loro le sconfitte. E dopo? L’eventuale sconfitta di Renzi non risolverà né la crisi di rappresentanza né i mille altri problemi italiani; i sindacati non torneranno a essere migliori, né la sinistra PD più autorevole, solo perché Renzi avrà mostrato i suoi limiti. In generale dopo il rovesciamento di un Cesare si vivono periodi di forte turbolenza e quindi di restaurazione. Ma cosa c’è da restaurare in Italia?

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