Il governo di destra-destra balbetta stupidagginette sui migranti, sui rave, sul contante, e non mostra di sapere affrontare, con la dovuta urgenza, i problemi strutturali e gravi che affliggono il Paese, alcuni dei quali hanno per la verità radici antiche e non sono mai stati affrontati da alcun governo relativamente a efficienza, competitività, produttività del sistema Paese (ne ha scritto Claudio Cerasa QUI). Sul fatto che certe coazioni a ripetere, certi cliché, certe attitudini siano specifiche della destra, abbiamo già scritto in lungo e in largo, e direi anche sulle analoghe e speculari della “sinistra”. Per fare un solo esempio su quest’ultima: dopo un bel po’ di anni di governo, la “sinistra” non è stata capace di mettere mano a una decente legge sui migranti (la famigerata legge Bossi-Fini è in vigore da oltre 20 anni 20), inventandosi, di volta in volta, sciocchezze come lo Ius Soli o lo Ius Scholae, idee buone giusto per qualche tweet.
Quindi, a volere essere un po’ sbrigativi: né la destra-destra né la “sinistra” hanno mostrato di saper governare, e di avere subìto una profonda mutazione sociale, nei tre ultimi decenni, che li ha portati, invece, a sviluppare abilità davvero notevoli nel tatticismo, piccolo cabotaggio sottogovernativo, invenzione estemporanea di slogan roboanti e scelte politiche periclitanti. Non ci aspettiamo quindi granché dal governo Meloni, né riponiamo alcuna fiducia in un ipotetico, futuro, governo di “sinistra”. Se l’unico che ha fatto benino, negli ultimi tempi, è stato Draghi, c’è un perché, e il lettore paziente lo scoprirà a breve.
La mia opinione è che il problema della governabilità – non solo in Italia – sia mutato radicalmente da quando l’assetto planetario è radicalmente mutato, fra gli anni ’80 e ’90, per un insieme di cause diversissime fra loro (economiche, tecnologiche, geopolitiche) che hanno accelerato, fra altre cose, la complessità sociale e le sue conseguenze sulla governabilità.
Sul mutamento epocale degli anni ’80 e ’90 si può leggere QUI; sulla complessità sociale – che resta un concetto cruciale da ben comprendere anche e soprattutto per l’analisi politologica – ho scritto negli anni due articoli divulgativi da leggere in quest’ordine: prima QUESTO poi QUESTO.
Dalla “complicatezza” alla “complessità”
La domanda cruciale cui vorrei tentare di rispondere ora è quindi: perché non si riesce a governare? Eppure ciascuno di noi è convinto di avere almeno alcune idee chiare, e gli sembra che certe soluzioni dovrebbero essere ovvie. Ciò accade perché noi siamo psicologicamente organizzati in modo lineare: ho fame e quindi mangio; il mio corpo mi manda segnali in vari modi su questa necessità di cibo, e quindi io apro il frigo e mangio qualcosa. Vediamo di rendere più complicata questa linearità.
Ho fame, e sono goloso, quindi mangio qualcosa di dolce.
Ho fame, sono goloso, ma devo controllare i trigliceridi, quindi mangio un dolce con dolcificante.
Ho fame, etc. etc., ma sono convinto che i dolcificanti facciano male, allora mangio della frutta.
Potete andare avanti a lungo, ponendo dei vincoli di varia natura, inclusi la celiachia, il vegetarianesimo, il coniuge severo controllore della vostra salute, le mode alimentari, il fatto che siete nel frattempo a dieta e volete perdere qualche chilo e via discorrendo.

Fin qui non stiamo parlando di complessità ma solo di “complicazioni”. Le complicazioni si riconoscono in anticipo se possibile, aggirandole o risolvendole, oppure basta il vecchio metodo chiamato “per tentativi ed errori”: prova in quel modo, e se non funziona prova nell’altro.
Purtroppo il mondo non è affatto lineare. Certo, nelle nostre piccole decisioni quotidiane questa linearità è sufficiente a farci decidere, ma cerchiamo ora di alzanre lo sguardo verso un contesto a metà fra il complicato e il complesso: un condominio!
La strada di fronte al condominio deve essere asfaltata perché ci sono troppe buche. Il tratto iniziale è comunale, e da un certo punto in poi è privato ad uso pubblico (strada vicinale). Da questo tratto di strada si dipartono alcune stradine che portano ad altre abitazioni, vicino al condominio. L’idea è di dividere le spese fra tutti i residenti ma:
- il Comune non ha il becco di un quattrino e non asfalterebbe il tratto di sua competenza;
- alcuni residenti delle strade secondarie dicono che loro non sono “frontisti” (nel significato 1 di vocabolario) e non voglio scucire un Euro;
- alcuni pensionati non hanno i soldi, dicono che loro tanto vanno a piedi, non sono interessati.
L’esempio (reale, mi ha coinvolto) riguarda una stratificazione di elementi: economico-finanziari (avere o no i soldi per eseguire il lavoro), giuridici (dalle norme sulle strade vicinali, indicazioni presenti o assenti sul regolamento condominiale…), psicologici (essere più o meno disponibili a un’idea di bene comune) e altri. Non basta risolvere i problemi di un livello ma bisogna avere il via libera in tutti, almeno in una certa dose. Per esempio potrei essere in un momento difficile economicamente, ma se sono convinto della necessità collettiva posso fare uno sforzo; oppure posso infischiarmene delle buche perché ho un fuoristrada, ma ritengo che subirei un danno reputazionale negando il mio consenso.

Avvicinandoci alla complessità vediamo quindi che intervengono condizioni diverse che hanno margini di variabilità, di tolleranza, di flessibilità, alla luce delle altre condizioni e del contesto. Non c’è linearità, se non in piccola parte, ma l’assunzione, variabile, di molteplici condizioni assieme.
Ma il mondo non è neanche una cipolla. Se così fosse, certo, le decisioni pubbliche sarebbero più difficili da prendere, ma non poi impossibili. Il fatto è che la complessità non solo non è lineare (come nell’esempio della fame), e non è solo una cipolla (molteplici elementi in interazione, da assumere con una riflessione complessiva). La complessità sociale ha a che fare con elementi non comparabili; non riducibili a una sintesi condivisibile.
Provo a fare un esempio con un talent show in cui partecipano artisti e performer vari: cantanti, acrobati, poeti, ballerini… Ciascuno riceve un punteggio in base alla qualità artistica e alla fine vince chi ha ricevuto il punteggio più alto. Sì, lo so che esiste un programma televisivo di questo genere, che funziona per tre semplici motivi:
- chi dà i punti è una giuria di pochissimi “esperti”, pagati per farlo e senza alcun interesse di parte (lasciamo stare, al momento, l’intervento del pubblico, che rientra nel terzo punto);
- gli artisti non hanno voce in capitolo; si esibiscono, ma non possono negoziare il punteggio coi giudici, o contestarli, o inscenare un sit in sotto gli studi;
- si vota ciascun artista di per sé, sull’onda di una spinta emotiva, di canoni artistici astratti, della simpatia del momento etc., e non c’è alcuna comparazione fra loro.
L’ultimo punto è dirimente. La comparazione è indiretta: se ho preso più punti di te, sono più bravo di te. Ma è un errore, ovviamente, perché un mangiatore di fuoco non può essere più o meno bravo di un poeta dadaista, un cantante lirico più o meno bravo di un prestigiatore, così come non potremmo dire se ci piace di più la Primavera di Botticelli o quella di Vivaldi (possiamo dire che ci piace più ascoltare musica rispetto a visitare una pinacoteca, ma è un’altra cosa).
La complessità, in definitiva, introduce l’irriducibilità dei fattori; ognuno ha un senso proprio, in un suo ambito, contesto, epoca (questo è uno dei punti cruciali del concetto di ‘complessità’ ma non l’unico; per capirne di più rimando ai testi citati all’inizio).
Governare nella complessità
A partire dall’ultimo esempio (il talk show) il lettore comprenderà le difficoltà legislative, amministrative e gestionali per qualunque altro tema di interesse pubblico, dal fare o non fare il Ponte sullo Stretto a decidere come contenere (o lasciar stare) i flussi migratori, dare o no, e come, le armi a Zelensky, sostenere il made in Italy e così via. Qualunque di questi argomenti, sul piano politico che a noi interessa osservare, ha questi problemi aggiuntivi (elenco non esaustivo):
- le norme internazionali e i trattati ai quali l’Italia non può derogare;
- le ideologie di riferimento di chi governa o, più modestamente, il ventaglio dei valori propugnati, le promesse fatte e così via;
- la difesa di ceti, settori sociali, interessi, corporazioni che alimentano il consenso alle forze di governo;
- la tattica politica momentanea (approfittare di un elemento estemporaneo per indebolire gli avversari, anche all’interno della stessa compagine governativa);
- le enormi difficoltà a tradurre un concetto generico ma di grande presa popolare (p.es.: “Basta sbarchi!”) in un corpus di leggi ben scritte, non contraddittorie, non impugnabili per esempio sotto il profilo costituzionale (il lettore non si inganni: malgrado giuristi, politici navigati e professori assortiti in Parlamento, passare da un’idea generica a una norma è davvero questione difficile);
- il mutare degli eventi mentre la politica legifera. L’avrete sentito dire, ultimamente, per esempio riguardo il PNRR: l’elevata inflazione ha reso obsoleti i vecchi conti in materia di progetti da realizzare;
- le opposizioni, o le parti sociali, o forze importanti nel gioco politico e democratico (p.es. la Magistratura; il mondo della scuola o della sanità…) che si impegnano seriamente per far naufragare un certo provvedimento, con scioperi, riempiendo le piazze, facendo disobbedienza civile… Ciò significa che il legislatore intelligente cerca di prevenire questo scontro frontale, ma deve concedere qualcosa; il che non è facile perché sovente le opposizioni fanno fronte comune ma restano divise sulle alternative;
- su un piano via via più tecnico: se le opzioni ideologiche sono (sembrano) facili (no rave, no sbarchi, no gay…) quelle economiche o, in generale, strutturali, sono di una difficoltà estrema, che è poi la ragione vera del fatto che nessuno mette mano alla riforma previdenziale, che la sanità è una voragine di sprechi che non si riesce a sanare, la scuola una fabbrica di analfabeti (qui invece tutti ci mettono le mani, come cuochi improvvisati che cercano, ognuno a modo suo, di rimediare una maionese impazzita), e così via.
Prendiamo, a titolo di esempio, solo un tema importante. Il lavoro. Per spiegare come il tema sia decisamente da mal di testa, in quanto a complessità, anziché illustrarlo malamente con parole mie vi rimando a una fonte terza e autorevole, l’OECD, che ha pubblicato – fra i tanti – un breve documento che, nella versione integrale, trovate QUI. Se non avete tempo e voglia di leggerlo (è comunque breve), vi basti sapere che per “creare posti di lavoro e sostenere lo sviluppo locale” l’OECD indica, quali fattori cruciali essenziali, elementi di governance non indifferenti, sostegno per tutta la vita allo sviluppo di competenze, misure mirate per i NEET, sostenere lo sviluppo di sistemi economici locali e promuovere le competenze imprenditoriali, sostenere l’imprenditorialità sociale, affrontare il tema del cambiamento demografico, facilitare la transizione verde e altro. Da questo elenco sommario si comprende come ciascun elemento sia un macro contesto da considerare da molteplici punti di vista, coinvolgendo svariati attori in processi lunghi che prevedono molteplici possibili soluzioni, ciascuna con vincoli e opportunità solo grossolanamente stimabili in anticipo.
Anche se l’idea di una sorta di ingegneria sociale può affascinare, ed essere considerata plausibile (non lo è), tanto da ritenere che un bel gruppo di cervelloni, con mezzi adeguati (specie informativi), potrebbe trovare una soluzione accettabile a qualunque problema, restano alcune ultime questioni insormontabili che sintetizzo così:
- non c’è sovrapposizione fra politici e cervelloni; il politico si avvale del cervellone solitamente solo perché convalidi le sue opinioni (come fece Toninelli con la valutazione della TAV); altrimenti è una seccatura, un “professorone” (dispregiativo); i governi tecnici, ultimo quello di Draghi, vengono sopportati finché non si può fare a meno, generalmente poco, accusandoli poi di non essere stati eletti da nessuno, sbeffeggiandoli nelle scelte complicate e razionali che semmai hanno dovuto fare (ricordare Fornero) proprio per sopperire alle asinerie dei politici. No, il politico non ama gli scienziati, i tecnici, i sapienti;
- le scelte politiche quindi, salvo rari casi per lo più rintracciabili nel passato, sono fatte su base umorale, emotiva e – questione fondamentale – comunicativa: uno Ius Scholae si comunica molto meglio, ed ha un impatto emotivo assai maggiore, del ragionare su cosa fare con gli emigrati; ha il vantaggio di costare zero, di mobilitare le coscienze nobili, mentre un ragionamento complessivo è “divisivo”, e quindi una rogna da evitare se si può;
- le scelte politiche sono fatte per oggi, mai per domani, figuriamoci per dopodomani. Questa è una conseguenza di quella “scomparsa del futuro” della quale ho trattato altrove, che ha conseguenze a livello di massa che si traducono, nel ceto politico, nel disinteresse del fluire storico, dell’appartenere a tale flusso, e che le soluzioni ai problemi di oggi devono avere una conseguenza anche domani, e dopodomani. La politica dovrebbe costruire il Paese futuro, invece si occupa di mattina delle dichiarazioni da fare a mezzogiorno, e di pomeriggio del tweet da fare in serata;
- le ideologie, di cui abbiamo già parlato; quindi se sei di destra, non devi pensare troppo a come far funzionare con efficacia il mondo, basta seguire le ricette ideologiche della destra; a differenza della sinistra, la quale non ha bisogno di pensare troppo a come far funzionare con efficacia il mondo, bastandole seguire le ricette ideologiche della sinistra;
- c’è poi da dire che la politica non si occupa di fisica o chimica ma di persone; tutte le politiche (sociali, economiche, sanitarie…) riguardano soluzioni a problemi di persone. Anche rompendosi adeguatamente la testa, impiegando cervelloni e così via, non può esistere un algoritmo che dia certezze sulla strada da intraprendere; una conseguenza è che su qualunque proposta di legge, i sindacati la vedono in un modo e gli industriali in un altro; gli agricoltori sono contenti ma gli ecologisti no; il commercio è d’accordo ma l’artigianato meno; e gli ambientalisti; e i vegani; e le femministe; e la bocciofila di Cesenatico… Ognuno può esibire il suo ragionamento, il suo cervellone, la sua logica, e senza un confronto che parta dalla legittimazione dell’interlocutore nessun compromesso può essere raggiunto.
Naturalmente il lettore può pensare che in qualche modo, comunque, delle decisioni vengono prese, e che il mondo va avanti. In realtà non è così. Moltissime cose, direi la maggior parte delle dinamiche sociali cui partecipiamo, vanno avanti per inerzia, in un quadro normativo che, nella sua essenza, è quello di qualche decennio fa, e che nel bene o nel male ci consente di fare il 90% delle cose che facciamo (lavorare, viaggiare, mandare a scuola i figli…). Per le novità, se sono relative ai diritti civili si litiga senza costrutto, perché sono temi identitari; se sono questioni strutturali o le fa Monti, o le fa Draghi, o non se ne occupa nessuno perché ci si scotta. Ma attenzione, perché questa inerzia è totalmente inadeguata al mondo contemporaneo, che procede verso un discreto assortimento di disastri, tutti assolutamente noti, in primis quello ambientale; ma restando su temi economici basti pensare alla demenziale accettazione, da parte del mondo democratico e liberale occidentale, dei monopolisti di risorse essenziali: il gas di Putin ieri, le terre rare cinesi oggi, eccetera. Nell’inerzia occidentale, i regimi massimalisti fanno i loro interessi; Putin con la guerra (e ha preso un abbaglio) la Cina comperando, in giro per il mondo, tutte le risorse strategiche e gli asset per rendersi pericolosamente egemone.
Perché non riusciamo a decidere qualcosa? Dato che i problemi sono chiari, noti, cristallini, perché non applichiamo un po’ di razionalità alle nostre decisioni politiche? Ebbene, se non vi è bastata la risposta data finora, ecco a voi l’ultimo tassello: è colpa nostra; mia, tua, lettore, ma anche del tuo vicino, del fornaio, dal tassista e via discorrendo. Noi vogliamo l’ambiente pulito ma non rinunceremmo alle due automobili di famiglia, se non sono tre; vogliamo riscaldarci quest’inverno e va bene Zelensky ma fino a un certo punto; sì, i condizionatori sono inquinantissimi, lo sappiamo, ma l’estate fa troppo caldo… I nostri governanti sanno che non devono governarci, bensì accontentarci. Devono strizzare l’occhio agli evasori fiscali e ai no vax; devono dare mance, bonus, condoni e regalie; più soldi ai pensionati e al pubblico impiego; viva la compagnia aerea di bandiera e non si licenzi nessuno; la scuola va bene così e anzi mettiamo dentro qualche altro migliaio di precari… E l’Europa? Ognuno per sé, come stiamo vedendo. Se avete seguito la storia di Scholz in Cina capite di cosa parlo: Scholz risponde all’elettorato tedesco, che deve essere accontentato, anche se gli altri partner protestano (non poi tantissimo). Perché mai Meloni non dovrebbe cercare di accontentare i suoi elettori italiani?