Scrive Cazzullo sul Corriere che in Italia non c’è, e non ci sarà, un Macron capace di farci uscire dalla crisi politica, prima ancora che economica e sociale che ne è conseguenza. La Francia ha un establishment di valore e una borghesia attenta, entrambi capaci di riconoscere le crisi e di compattarsi per il bene della nazione, un sentimento sentito dai francesi.
In Italia i movimenti populisti sono più forti: perché privi della zavorra ideologica che schiaccia Marine Le Pen a destra e Mélenchon a sinistra; perché la ripresa tarda ad arrivare ed è concentrata nelle zone già più avanzate; perché il disprezzo della politica si accompagna spesso — anche se non sempre — a un senso di estraneità verso lo Stato.
Conclude Cazzullo:
dallo stallo politico in cui ci siamo avviluppati non usciremo grazie a figure salvifiche […]. All’Italia non serve il miraggio di un modello straniero, ma un paziente lavoro di ricucitura civile. Una svolta che rilanci gli investimenti, l’occupazione, la fiducia. A giudicare dall’astensione record, nel giorno in cui comuni dalla forte identità erano chiamati a eleggere il sindaco, sarà un lavoro lungo. La politica ha disperso un patrimonio di credibilità che non sarà facile ricostruire. Il viaggio comincia adesso. Purtroppo, o per fortuna, non consente scorciatoie.
Insomma: gli italiani non sono i francesi, e Renzi (o Berlusconi) non è Macron.
Il popolo italiano è al fondo di un ipotetico ciclo storico. Semmai tale ciclo esista, forse siamo stati al top nel dopoguerra, con i costituenti, il rilancio economico, le prime riforme improntate all’universalismo e all’equità… Ci sarebbe da discutere se questo “top” sia stato di grande Storia, di vera Eccellenza, di autentico Slancio. Comunque quello è stato il nostro top negli ultimi settant’anni. Poi le lunghe stagioni democristiane, quelle delle tentazioni eversive, quelle della fine della cosiddetta Prima Repubblica, preludio del Berlusconismo. Qualche sprazzo, diciamolo: la capacità di risposta alle Brigate Rosse l’annovererei come pagina, sofferta, di capacità della politica e, assieme, del popolo italiano. Non vedo molti altri momenti della stessa pregnanza. Abbiamo una enorme responsabilità, come popolo, che non mi pare possibile ignorare. Il popolo italiano ha voluto, fortissimamente voluto, tutti e ognuno i singoli provvedimenti, le riforme, le leggi (o la loro mancanza) che hanno contribuito al declino nazionale e all’attuale stagnazione civile, prima ancora che economica. Chi è giovane non ricorda lo scandalo delle baby pensioni, dell’irragionevole obesità di risorse umane alle poste, alle ferrovie, poi nelle Regioni; lo stravolgimento del sistema previdenziale, l’avvilimento della scuola, la stagione della concertazione, i continui aiuti di Stato ad aziende private, prima dell’Euro e, sostanzialmente, anche oggi. E come negare che sempre, sempre, sempre, qualunque tentativo di mettere mano a una qualche politica seria ha visto immediatamente scendere in piazza questa o quella categoria, con sostegno di sindacati e forze politiche interessate ad avere un megafono contro: guai riformare la scuola perché si arrabbiano gli insegnanti, guai riformare il trasporto urbano perché si arrabbiano i tassisti, guai fare un buco da qualche parte perché si arrabbiano i cittadini del luogo.
Ma tutto questo sarebbe il male minore se ci fosse un livello di analisi e dibattito non dico elevati ma almeno discreti. Invece molteplici fattori (inclusa la distruzione della scuola) hanno portato gli italiani nell’abisso del populismo ignorante e arrogante. Le competenze appartengono sempre più a cerchie ristrette di sopravvissuti, accerchiati da legioni di ignoranti fieri di loro opinioni assolutamente fondate sul nulla. Un popolo di indignati da salotto che clicca spasmodicamente su Facebook e sputa sentenze secondo un’agenda di priorità e di urgenze completamente eterodiretta, scandita dal blog di Grillo, dal talk show furbetto, dal Gabibbo. Gli italiani sono No Tav ma per andare a fare 500 metri per la spesa prendono l’auto; vogliono un sistema sanitario perfetto ma poi pretendono di curarsi, a spese dello Stato, con il trifoglio bollito; vogliono fare qualche soldino giocando coi fondi a rischio proposti dalle loro banche farlocche, ma poi pretendono che lo Stato intervenga quando si accorgono di star per perdere i loro risparmiucci; vogliono giustizia per loro stessi, e a modo loro, ma manderebbero in galera tutti e subito sposando le cause del peggior populismo giudiziario.
Questi italiani, populisti e ignoranti, familisti e servili, arrabbiati ma con calma, così straordinari e così involgariti, sono diventati in larga parte confusamente antipolitici, vagamente anticasta, increduli e incapaci di creare una leadership credibile, capace di condurre il popolo al riscatto, ammesso che voi crediate che sia il popolo a creare la leadership, e non il contrario.
Ma se, al contrario, pensate che sia la leadership che sa creare una visione, dare obiettivi a un popolo e condurlo verso il progresso e la prosperità, ebbene anche in questo caso non vedo giganti all’orizzonte. Da noi nessun Macron, come scrive Cazzullo, né mezza Merkel, né un filino di Obama o di chi vi pare a voi. Chi sono stati i grandi leader italiani della cosiddetta Seconda Repubblica? Se ci pensate, al netto delle vostre preferenze politiche, ce ne sono stati solo due. Il primo è stato Berlusconi. Un gigante in un paese di nani, capace di dominare la scena politica per un ventennio, nel bene e specialmente nel male; con obiettivi personali, leggi ad personam, olgiettine e barzellette, distruzione del pensiero liberale, del residuo di credibilità internazionale dell’Italia, deperimento economico e via discorrendo; ma – diamine! – che fiuto politico, che capacità comunicativa, che furbizia strategica! L’altro grande leader è stato Renzi; Renzi ha interpretato in senso costruttivo e non populista la voglia di cambiamento degli italiani; la rottamazione, una riforma al mese, siate ottimisti, le slide e il tentativo di imitare Blair e Obama. Poi non ne ha azzeccata una, buona parte per colpa sua e in parte per condizioni oggettivamente difficili, fra alleanze scomode ereditate da altri a scissioni interne e logoranti. Eppure i due sono stati i veri fenomeni del nostro panorama politico, per capacità comunicativa, visione, carisma e leadership. Non vi piace nessuno dei due? Peccato, perché l’offerta è finita. Grillo non è un fenomeno politico ma un marchio aziendale che intercetta l’antipolitica; la sinistra di Bersani e D’Alema? Ma siete seri? Non vale la pena parlarne, come non vale la pena parlare di Salvini e Meloni. Un leader nazionale, capace di aggregare grandi masse di elettori e quindi di governare e quindi riformare il Paese non può essere il leaderino di una minoranza ideologica, per quanto chiassosa.
Il panorama politico di fronte a noi è quindi sconfortante. Nella crisi generale della forma-partito, non vediamo quali prospettive abbia l’Italia. Le recenti elezioni amministrative – qui vado controcorrente – non significano affatto che Berlusconi sia tornato e che Renzi sia finito. Sarebbe un discorso lungo e non voglio perdere il filo. Il fatto è che la destra liberale dovrà affidarsi a Berlusconi, e che la sinistra riformista dovrà affidarsi a Renzi. Non esiste, oggi, un’alternativa. E poiché Berlusconi, a mio avviso, è un morto (politico) che cammina, mesmerizzato dalla necessità della destra di non confinarsi nel ghetto lepenista e vincere soprattutto contro il M5S, opponendo una proposta credibile sul fronte moderato, ecco allora che chi auspica una stagione riformista, democratica, aperta, liberal-socialista, non può che guardare (con un certo sconforto) a Renzi e alla sua incapacità strategica. All’indomani della sua plebiscitaria rielezione a segretario PD, scrivemmo su HR che il ritorno di Renzi poteva avere delle possibilità a patto di rispettare alcune condizioni. E’ troppo presto, per carità, ma da un certo punto di vista è anche troppo tardi. Renzi deve occuparsi fortemente del partito e falciare i potentati locali che gli hanno fatto meritatamente perdere le amministrative; Renzi deve costruire una nuova immagine chiaramente liberal-socialista smettendola di salvare imprese insalvabili e di occhieggiare ad interessi di parte, tagliare senza ambiguità i ponti con la sinistra radicale e tornare alle poche, semplici ma rivoluzionarie idee delle prime Leopolde. Se no a breve, alle imminenti elezioni politiche, si dovrà accorgere di non avere aperta una nuova stagione italiana, ma di essere semplicemente stato l’ultimo di una serie di illusionisti.
E per l’Italia non ci saranno molte altre speranze di riscatto, almeno a breve.